Di Rocco
Spesso la cavalleria si accosta al solo concetto di utilizzo del cavallo nella pratica militare, al crociato disilluso di ritorno dalla terra santa o al templare inginocchiato verso la croce.
Effettivamente questi tre elementi non sono del tutto errati analizzando il contesto medievale in una maniera molto ampia e molto generica. In realtà però, la cavalleria, nella figura del cavaliere e della “Fraternitas” a cui apparteneva, era un’élite di pensiero e di azione. Non per forza i cavalieri erano legati al contesto religioso, anzi, essi rappresentavano nella società i “Bellatores”, la casta guerriera che si poneva tra gli “Oratores” e i “Laboratores” andando a creare una struttura organica che reggeva la società medievale.
Quello del cavaliere, comunque, era anzitutto un modo di essere guidato da una fede e un ideale.
Il cavaliere si poneva a bastione degli “inermes”, gli inermi, quali appunto vecchi, donne e bambini; seguiva la via dell’onore, la via del coraggio e della fedeltà e ricercava la verità. La cavalleria non era, quantomeno in principio, una casta chiusa. Bastava votarsi al codice cavalleresco per diventarne uno. Questo a smentire quantomeno in parte il classismo becero di cui vengono accusati.
Spesso diventare cavaliere non era neanche conveniente, era quindi una scelta di cuore e non di pancia.
L’effige del cavaliere divenne quasi mistica, i più deboli addirittura ne invocavano la venuta nel momento del bisogno. Il cavaliere aveva assunto la figura di colui che combatteva nonostante l’incertezza della vittoria, rimanendo fedele ai suoi principi fino al trionfo o fino alla morte. Meglio quest’ultima che il disonore.
Legare e donare se stessi ad una causa e ad un giuramento.
L’unica certezza era quella della lotta, costante nella vita del cavaliere anche in tempi di pace.
Il nemico del cavaliere venne incarnato dalla classe mercantile e borghese. Non nelle persone fisiche ma nella loro mentalità. La cosiddetta “Gens Novae” non vedeva un orizzonte nella lotta, ne tantomeno aveva un codice di valori e di ideali che la “Fraternitas” cavalleresca ebbeinvece sin dal suo principio. La neonata “Gens Novae” era fondamentalmente materialista, e finalizzava la sua esistenza ricercando una ricchezza spasmodica. Per quest’ultima ideali, guerra e valori erano una perdita di tempo. La lotta non era una possibilità di innalzare una virtù, ma una perdita di bilancio.
Laddove il cavaliere vedeva nel cavaliere nemico un confratello in campo opposto, il mercante che combatteva vedeva nel cavaliere solo un soggetto che interrompeva la sua attività facendogli perdere denaro e rischiare la vita.
Il mercante combatteva libero da qualsiasi deontologia militare e sotto lo stimolo dell’urgenza di tornare presto ai propri affari sospesi.
Col tempo e le innovazioni militari la figura del cavaliere venne meno, dove la tradizione cavalleresca arrancava la “gens novae” guadagnava terreno.
Oggi la figura del mercante ha assunto una posizione predominante: il ricco capitalista senza scrupoli che manovra popoli e nazioni è un qualcosa di effettivo e visibile, mentre la “fraternitas” cavalleresca è venuta meno. Ma nonostante l’imparità della lotta e nonostante l’incertezza della vittoria possiamo ancora essere cavalieri del nostro tempo.
Possiamo ancora legarci ad una fede.
Possiamo ancora legarci ad un giuramento.
Possiamo ancora avere un orizzonte nella lotta.
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