Di Sergio
Parlare di Berto Ricci è come aprire una capsula del tempo: una di quelle capsule dove si mettono al riparo, per i posteri, le cose più preziose che abbiamo da lasciare a coloro che verranno dopo, le cose utili a ricostruire, le cose belle che vale la pena ricordare. Lo scrittore fiorentino rappresenta questo per noi: Berto Ricci è lo scrigno del nostro cuore, se ci è concesso fare un ardito parallelismo con la saga dei “Pirati dei Caraibi”, con il capitano Davy Jones e la sua ciurma maledetta arruolata per “cent’anni sopra coperta”. Quando parliamo di Ricci parliamo della nostra rivoluzione. La rivoluzione fascista. Berto Ricci È la rivoluzione fascista in tutta la sua essenza, in tutto ciò che (suo malgrado) non è stata e poteva essere, in tutto ciò che effettivamente è stata, in tutto ciò che deve e dovrà essere.
Spesso mi piace parlare o scrivere di questi personaggi partendo dalla morte, iniziando dalla fine (scusate il gioco di parole). Non per qualche macabro fetish, ma perché se è vero, come insegna il Bushido giapponese, che la vita di un uomo assume valore nell’istante in cui si confronta con la morte, allora non si può che partire dalla fine, quando tutto ciò che l’uomo ha detto, fatto o pensato viene sugellato con la sua morte, quasi a dare assicurazione e garanzia sulla sua vita e la sua opera. Quasi a dirti: “Sono morto per quello in cui credevo” ti deve bastare. E così è capitato, anzi, così è stato voluto: alle nove di mattina del 2 febbraio 1941, a Bir Gandula, in Cirenaica, tra le dune del deserto il giornalista fiorentino incontrò la morte vestita nei panni di uno spitfire inglese che lo falciò di netto, senza pietà, senza riguardo. Morendo in Africa per il risorgimento d’Italia e d’Europa Ricci lascia la politica per firmare con il sangue, anche lui come tanti altri, l’ultima coraggiosa pagina della “poesia del mondo”. Perché parlare di Ricci, cos’ha di diverso dai mille, migliaia di giovani caduti in Africa durante la guerra? Di diverso nulla, stesso spirito e stessa carne dell’italiano che da Bir El Gobi ad El Alamein, dal Mediterraneo al Volga, si è affermato allo stupore del mondo. Ciò che fa del fiorentino un esempio vivente della nostra idea è che lui, lì in Africa, ci andò implorando la prima linea.
Provate a pensare ad i giornalisti di oggi, solo per un momento. Viene quasi da ridere se pensiamo a quella meme, girata sul web ultimamente, che mostra il cane muscoloso e possente e quello stupido e goffo seduto davanti ad un portatile. Se il giornalismo fosse quella meme avremmo sul cane muscoloso Ricci, volontario che si disse umilmente imbarazzato con Pavolini perché “dopo aver parecchio predicato guerra e delenda e simili, mi sentirei pochissimo a posto dinanzi a me stesso e all’Italia se restassi a casa mentre si combatte”, mentresul cane scemo avremmo un freelance di Vice o dell’Huffington Post che ci spiega in dieci punti perché Spongebob è uno sporca e misogina spugna razzista. Uomini d’altri tempi verrebbe da dire, se pensiamo che il giornalista oggi è una casta di intoccabili, “maledetti impiombati” salottieri che incontrerebbero la furia di Berto che già ai tempi, ammoniva e si accaniva contro quella cultura estranea all’azione, alla passione, al fuoco delle belle idee per cui si muore, contro i finti scrittori “che mirano non sai dove” e contro quella nomenclatura di intrattenitori alla Berizzi o Parenzo che “pare che soffin sempre nella stessa minestra” e che “si arrogano il diritto di rappresentare tutti noi, e si danno un con l’altro le investiture”. Parole di quasi ottant’anni fa che però bruciano come un marchio tutta l’intellighenzia (di destra e di sinistra) dell’Italia moderna. Quando Berto Ricci scrisse la prima lettera fu assegnato ad un reggimento d’artiglieria, alle batterie costiere della Marina di Pisa. “Una solenne fregatura” come ebbe a dire nella seconda lettera a Pavolini. Un posto comodo ed imboscato lontano dai combattimenti. Inacettabile! Viene accontentato e mandato al fronte, in Cirenaica, dove perfino nei giorni che precedono la sua morte continua a far imbestialire le gerarchie dell’Esercito per avere non la retrovia ma la linea del fuoco.
Si è detto molto di Ricci, prima e dopo la sua morte. Si è detto che era un anarchico, un fascista di sinistra, un comunista, uno scomodo al regime che se ne volle liberare mandandolo a morire in Africa, un demoralizzato… niente di più falso, ovviamente. Ricci è stato Fascista ed è morto come tale, al contrario di molti suoi amici e collaboratori che tolta la camicia nera indossarono il fazzoletto rosso. Lo testimoniano le sue ultime lettere alla moglie in cui afferma con entusiasmo “Siamo qui anche per loro (riferendosi ai figli) perché questi piccini vivano in un mondo meno ladro, e perché la sia finita con gli inglesi e con i loro degni fratelli d’oltremare, ma anche con qualche inglese d’italia”. Dove nasce questa bolla di scomunica dal “Fascismo ufficiale” (come se poi ce ne fu mai uno)? Perché quella di Ricci non fu mai un’adesione comoda al Fascismo, come purtroppo se ne videro molte, ma un’adesione in cui profuse corpo ed anima, mai lesinando critiche e mai (perdonate il francesismo) leccando il culo alle gerarchie del Partito. Anzi, sostenne sempre e con audace scorrettezza che il battimano degli “yes man” dell’epoca fosse proprio “servilità vilissima e anti-fascismo morale”. Luiserviva la Rivoluzione non lo status-quo. La sua polemica, se può essere definita tale, fu sempre indirizzata a dare forza e linfa vitale alla Rivoluzione Fascista, a quella rivoluzione che si era fatta governo e regime e non poteva assolutamente cedere il passo, o peggio, trasformarsi in una semplice forza reazionaria anti-bolscevica. Nella sua visione infuocata, che negli anni ‘30 spande come un incendio dalle colonne dell’Universale, il nemico numero uno del Fascismo, della rivoluzione, era prima di tutto il binomio borghesia-capitalismo. Non Mosca. Non l’Unione Sovietica di Stalin. Ricci preconizzò, da vero profeta come solo Firenze ne ha donati alla nostra terra, il grande bluff della rivoluzione rossa che se allora era solo un’ombra scorta da pochi, oggi si rende palese con la globalizzazione, in cui la sinistra internazionalista erede del Comintern si batte attivamente per la distruzione del lavoro e della giustizia sociale. Ricci sapeva, come Nicola Bombacci (fondatore del Partito Comunista Italiano e morto fucilato dai partigiani a Dongo insieme a Sua Eccellenza), che soltanto la Rivoluzione Fascista avrebbe portato la vera giustizia sociale per i lavoratori, non attraverso l’infame lotta di classe e l’avvento della dittatura del proletariato, ma attraverso lo Stato organico e corporativo in cui il lavoro è la base, ancora prima che dello Stato, dell’individuo. Non un lavoro subito come vessazione ma un lavoro attivo nello Stato e per la Nazione. Non un lavoro sottoposto all’economia ma base dell’economia. Ma seppur erroneo, il bolscevismo andava superato non con la forza ma per carica rivoluzionaria. Se il Fascismo avesse portato fino in fondo la rivoluzione, il comunismo (come intuì lo stesso Lenin) sarebbe stato reso inutile, inefficace, anti-storico. Ecco perché spesso Berto Ricci viene accostato al limbo del rossobrunismo. Ma è un errore credere che volesse scendere a patti con i rossi, semplicemente sapeva che andavano superati, che il Fascismo non si poteva permettere di arroccarsi su posizioni comode, pena la sua sconfitta.
Ma era solo questo? Solo lavoro ed economia era la sostanza della nostra marcia? Dov’è quell’”eresia assoluta”, quella “rivolta totale”, quella “rivoluzione perfetta”, quella che per usare le parole di Pietrangelo Buttafuoco “non ciancia di diritti ma evoca gli Dèi”? È vero, dalle colonne del suo foglio Berto Ricci suona la carica contro il Capitale nemico dell’anima, il maiale che ha sede a Chicago, ma soprattutto contro il primo (se vogliamo l’unico) vero nemico dell’uomo nuovo dell’era fascista: il borghese. Ma non il borghese sociale, ma bensì il borghese dell’anima, il borghese piccolo piccolo che purtroppo è stato eretto a modello di italianità nel dopo guerra.
“… il borghese vuol discutere, soffre di non poter discutere per discutere. La sua mezza cultura è per definizione lo stato di disgrazia della fede, perché gli dà l’illusione di poter tutto giudicare improvvisandosi economista, statista, stratega”.
Ecco il borghese che è dentro di noi, lo scettico che non crede, senza fede, fatto di piccolezze e rinunce, bassezze morali, il borghese parolaio e fanfarone delle saghe di Fantozzi, il borghese che si rinchiude nella cinta urbana e non sa vivere la natura. Insomma, il piccolo animo che è dentro ognuno di noi e che va sconfitto perché si possa avere prima di tutto dentro sé stessi la premessa senza cui la rivoluzione sarebbe solo un’agitazione di greggi, una semplice sostituzione di potere (se vogliamo la Rivoluzione di Julius Evola). “L’intelligenza fascista non si tempra per facili vie ma si afferma e si legittima attraverso il sacrificio”. Cos’è quindi l’antiborghesia per il fiorentino, cosa dev’essere per chi si definisce fascista?
“L’antiborghesia fascista deve, soprattutto, non essere solo polemica. Dev’essere costruzione, educazione, il borghese non esiste solo allo stato puro. Il borghese è in noi, in ciascuno di noi, con le sue rinunzie e le sue ambizioni, il suo sottilizzare e dubitare, il suo particolarismo d’individuo, di famiglia, di ceto, la sua brama di ricchezza, la sua – specialmente – paura della povertà; la sua paura del coraggio; il suo basto d’abitudini; la sua doccia tiepida d’accomodamenti; la sua estraneità dalla vita fisica e da quel tanto di natura che ci vuole all’uomo civile perché la civiltà non si deformi nella più gretta barbarie. La lotta antiborghese è dunque, nel suo significato più alto, tirocinio crudo di tutti noi, uno per uno, perché solo un’umanità fascista, nella quale nessuno cerchi scuse e nessuno ne trovi, tutti accettino compiti e tutti ne ricevano, potrà riconoscere la supremazia dello spirito, detronizzare la ricchezza dalla vita.”.
Qui non parliamo di programmi politici e manifesti, si parla di noi, si parla della costruzione di una vera aristocrazia del sangue, del merito: si parla di una rivoluzione semi-divina perché vuole mutare il sentire comune dell’uomo comune per elevarlo ad un più alto livello di percezione delle sue responsabilità. Ecco perché ci fu il bisogno di seppellire l’Europa e le nazioni fasciste sotto un cumulo di macerie, fisiche ed umane, ecco perché l’Armata Rossa dovette penetrare fino nell’ultima casa e via di Berlino per poter vincere, ecco perché le bombe atomiche, ecco perché l’8 settembre. Ecco perché a Casablanca gli alleati decisero di non accettare alcun termine di resa con il nemico se non la capitolazione incondizionata. Ecco perché si lavorò nel dopoguerra per l’annientamento totale del corpo, dell’anima e dello spirito delle Nazioni che osarono sfidare il mondo. Perché non si ritentasse mai più nella storia quella rivolta totale che per un attimo fece vacillare, per davvero, la Terra. Per Berto Ricci gli uomini sono e devono essere essi stessi la rivoluzione: silenziosi, disciplinati, liberi all’interno della comunità, lavoratori, religiosi, artisti, guerrieri. Una visione che ha nostalgia del sacro, ma non del sacro inteso come nostalgismo bigotto dello Stato Temporale della Chiesa e del Papa Re, ma di un sacro “pagano”, ovvero quel sacrificio (dal latino sacrum facere) teso alla persecuzione della propria Natura e volontà: lo sforzo ascetico del Santo, l’estasi dionisiaca dell’artista, il furore ardente del guerriero, la calma inossidabile dell’artigiano, aldilà dei dogmi bigotti di colpa e perdono c’è solo l’audacia dello sforzo, la sventatezza di chi decide di dare il meglio di sé, quale che sia il suo cammino...
Perché è fondamentale, oggi, rileggere Berto Ricci? Perché la sua è un’opera sempre valida, sempre verde, sempre rivoluzionaria? Perché ci lascia in eredità un modo diverso di essere Italiani. Ci lascia le chiavi di lettura per quella trasmutazione “alchemica” del mercurio in oro: la trasmutazione dell’animale in uomo, la massa in popolo, il popolo in nazione, la nazione in Impero. La sua è un’opera verticale che pensa l’italianità come un’opera sempre da fare (come la voleva intesa lo stesso Giovanni Gentile) ed una sintesi superiore delle diverse parti che animano. Un’italianità che sale per gradi da quella che per lui è “l’italianità naturale”, ovvero quella dell’appartenenza alla terra e al radicamento nelle storie locali, nei borghi e nei paesaggi, nell’umanità verace che affolla mercati e porti, nei dialetti di paese e nei sberleffi dei ragazzini e che esiste “come esiste il fulmine” (per citare Nietzsche). È un’Italia prepolitica, se vogliamo, che esisterebbe comunque, anche senza quella cornice istituzionale avuta solo dopo il Risorgimento. Quell’italianità odiata dai bacchettoni agenti della buoncostume bancaria (“Italiani spreconi”), quella invisa dai radical-chic che odiano sé stessi e che la vorrebbero correggere a forza di diete vegane, cinema d’autore e rieducazione in stile Arancia Meccanica. Quell’argine che nel bene e nel male ha lasciato l’Italia arretrata rispetto al progresso Nord Europeo, ma arretrata rispetto a cosa? Rispetto alle conquiste gender della Svezia e alle conquiste dello ius soli francese? Insomma, fortunatamente siamo “arretrati” e anche se sempre in minor misura, resiste comunque questo corpo allergico e genuino, una nazione carnale, questo “viver libero e senza troppa moraletta” che se da un lato ci porta l’accusa d’ignoranza dall’altro ci salva da molte derive moderne che arrivano solo oggi in Italia mentre sono già state metabolizzate ed assimilate quarant’anni fa dal resto del mondo. Per quanto ancora? Ovviamente non basta a difendere la nostra anima. Circondati come siamo da tanta bellezza spesso ci accontentiamo della vocazione turistica del bel paese e accettiamo la nostra macchietta hollywoodiana di mafiosi mangia spaghetti che vogliono bene alla mamma. Secondo Berto Ricci l’anima dell’Italia non è nei suoi musei ma nel suo farsi storia, ovvero quando l’Italia acquisisce coscienza di sé e si pone una missione. Essere italiani non significa avere un pezzo di carta che lo dimostra, ma comportarsi come tali, ambire ad essere tali. Per questo pone al centro della sua opera l’epopea risorgimentale e fissa i cardini sul quale indirizzare la Nazione: infatti, per lui la vera rivoluzione italiana sarà quella che realizzerà i precetti del De Monarchia di Dante e del Concilio di Mazzini. Berto Ricci per primo intravede il filo rosso che annoda una tradizione “paganeggiante” anche sotto le vesti cattoliche. Una tradizione, un’idea d’Italia che attraversa i secoli, da Pitagora a Giordano Bruno, da Carducci a Mussolini. Una tradizione che è prima di tutto gioia di vivere, spirito mediterraneo, “un’allegrezza che non è incoscienza né bestialità, ma finezza spirituale, arte di vivere, ateniese, italiana”. Una tradizione avversa alla pedanteria tedesca, agli intellettualismi francesi e al mercantilismo inglese (usando sempre parole di Nietzsche). Una tradizione ostile ad ogni influsso protestante, puritano o nord-europeo, e forse per questo così allergica ad i suoi figli naturali: comunismo e capitalismo.
Questa Tradizione Ricci la vede non come una zavorra ma bensì come un’energia dinamica e creatrice sempre in funzione e non come una cultura museale che si adagia sugli allori dei suoi antichi splendori. Ricci era fortemente convinto che il mondo stesse cambiando, ma la sua posizione non fu mai reazionaria o conservatrice. Se il mondo cambia non restiamo noi stessi predicando immobilismo ma cercando il nostro modo di cambiare, la nostra via. Un compito arduo per il quale bisogna sbarazzarsi del concetto di nazionalismo che “ci riduce a campar di ripicchi e di dispetti, ci fa simili alla Serbia e al Paraguay”, ed inoltre è “egualitario, da buon figlio dell’Ottantanove, e per lui basta essere nati fra certi limiti geografici per avere cittadinanza piena ed intera”. Come dargli torto? Spesso l’anti-nazionalismo di Ricci viene usato contro di lui per adombrarlo con una patina buonista, comunisteggiante se non antifascista. Ma se vogliamo la sua è una visione ancora più estremista, ancora più razzista ed intransigente, perché discrimina non il corpo ma lo spirito. Quante volte ci sentiamo soli, anche circondati da migliaia di connazionali? Quanti di loro ci vorrebbero vedere “appesi”? La rivoluzione non può essere nazionalista, ma Italiana ed umana, ancora più aspra ed estrema perché aspira non alla nazione, come può essere sventolata anche oggi il 2 giugno da Mattarella o Boldrini, ma aspira all’Impero come forma dello spirito e gerarchia dei popoli.
Uno spirito universale è ciò che è conforme all’Italia e alla sua missione imposta dal Primato. È l’idea d’Impero su cui Berto Ricci insiste ed insiste fino a perderci il fiato, a cui affida tutte le forze del suo corpo e tutte le fibre della sua anima. Il Fascismo non può non essere Impero, l’italiano non può non essere universale.
“A questo nome d’Italiano io non credo debba assegnarsi un significato di nazionalismo stretto, anzi all’opposto un suono imperiale e di generosa umanità. Non sta agli uomini di Mussolini essere nazionalisti […] né si può fondare e spargere una civiltà se non si è universali”.
Un’esortazione ancora più dura e terribile se riportata ai giorni nostri, perché esorta l’Italia ad innalzarsi, prima sopra sé stessi, poi sopra le altre nazioni per divenirne guida. Un’esortazione ad essere bandiera in cui possa riconoscersi anche chi “italiano” per nascita non lo è. È il significato di Primato, che per Ricci è il destino della comunità di popolo chiamata Italia: sintesi di qualità eterne che l’hanno contraddistinta, retaggio delle innumerevoli culture che l’hanno attraversata, arricchendola ma senza che mai la sua specificità venisse in qualche modo recisa. È il nostro genius loci che si fa civiltà e pone a noi la sfida di essere avanguardia dei popoli nella costruzione di una nostra via alla modernità e alla globalizzazione. Una via che sente l’esigenza di tutelare le differenze perché essa stessa è una sintesi di differenze attive e vitali, una via che sente come propria la vita di tutte le identità, dal più piccolo rione, borgo e paese fino ai grandi spazi intercontinentali. Questa era, è, la missione imperiale ed universale che Berto Ricci accordava al Fascismo, una missione ispirata all’essenza di Roma “che non è quella di contrapporsi ai barbari ma di farli cittadini”. Parole che non sono muffo pacifismo ma iustum bellum, inno alla conquista e non all’arrendevolezza, ordine contro caos. Può esserci una nuova forma della tradizione nel nostro secolo? Anticipando di qualche decennio Dominique Venner, Ricci già ci parla del male del nostro tempo indicandoci la rotta da seguire. Certo, il mondo è cambiato dagli anni trenta e sicuramente non in meglio: gli attacchi portati allora alle forme tradizionali si manifestano oggi nell’attacco totale all’essere uomo nella sua interezza, a scanso di fascismo o anti-fascismo. È sotto attacco tutto ciò che sfugge alla bilancia della perdita e del profitto. Ora a bruciare non sono solo i libri “maledetti” ma tutti i libri. Bruciano perché rivelano all’individuo le passioni che animano i cuori, quelle passioni che non accettano compromessi e non possono essere messe a contratto, che divorano e non possono essere estinte come un debito. Sotto attacco ci sono sesso, famiglia, lavoro e personalità, non solo un’area politica ma la Politica, privata di onore e allontanata dalla sfera dell’uomo come fosse non qualcosa di innato ma bensì di estraneo, inventato, un semplice costrutto. Non è attaccata un’Idea, ma tutte le idee, gli ideali i sogni. È attaccato tutto ciò che è umano, l’amore e il coraggio, l’arte è svuotata di senso, la religione ha perso il sacro, la guerra ha abbandonato i nostri orizzonti. È attaccato tutto ciò che ti fa credere che ci sia qualcosa di meglio, che ti fa credere che questo, proprio questo, non è il migliore dei mondi possibili. È quindi necessario un moto universale, un nuovo umanesimo se volete. Che si chiami Fascismo o meno è dall’Italia che deve rinascere, è con esso che l’Italia potrà uscire dal letargo ormai quasi secolare. Sta a noi, “al nostro secolo ridare alla mente italiana l’abito della vastità, l’amore e l’ardire, il dominio dei tempi e delle nazioni. Chi intende questo sarà con noi.”.
Non è una missione facile, non si tratta di un giorno, non è una scappatella. È una rivoluzione che richiede di pugnalare il cuore per cent’anni sopra coperta.
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