Di Elena

Ai nostri giorni, la corsa alla ricerca di un lavoro stabile o un posto fisso ci attanaglia la vita, ci riempie le giornate e talvolta ci deprime costringendoci ad accettare banali compromessi o impieghi sottopagati per sbarcare il lunario. Lavorare dà la possibilità all’uomo di sentirsi pienamente cittadino, mediamente indipendente e sufficientemente pronto a mettere su una famiglia (di piccole dimensioni, si intende). Appare ormai chiaro che il lavoro rappresenti l’origine ed il fine della vita, il cardine su cui poggia la stabilità famigliare, è quindi fondamentale anche nel regolare rapporti interpersonali.

Se analizzassimo con più attenzione il concetto di lavoro e cosa esso comporti, ci renderemmo conto che è in grado di prosciugare la nostra essenza di uomini liberi perché ci tiene costantemente concentrati su di sé; che sia l’atto stesso di lavorare o i sogni nel cassetto da realizzarsi grazie allo stipendio, che tali in tanti casi rimarranno specialmente in un’epoca in cui i motti “puoi essere o fare quello che vuoi” sono solo specchi per le allodole, e di allodole ultimamente se ne vedono parecchie.

Ma è sempre stato così? C’è sempre stata questa caccia al posto fisso? La risposta è chiaramente no, ad esempio in Grecia il lavoro era per chi non poteva permettersi di oziare. Ai molti la parola ozio suona come qualcosa da evitare, un’attività da fannulloni, da perdigiorno, da persone che non hanno voglia di faticare. Indubitabilmente i tempi sono molto cambiati, per Aristotele il lavoro rende l’uomo schiavo della materia, questi diventa incapace di pensare, contemplare e capire se stesso e ciò che lo circonda, in sostanza il lavoro non gli permette di sviluppare la sua potenziale essenza di uomo. È l’ozio a rendere l’uomo degno di questo nome. Lungi da lui accostarsi a qualsivoglia attività materiale riconducibile all’animale e non all’uomo.

Anche per Platone l’ozio è una conditio sine qua non per i filosofi, ossia la casta a cui dovrebbe essere affidato il compito di governare la comunità. Questi ultimi devono oziare e studiare per distanziarsi dalla materia ed essere liberi di contemplare il mondo perfetto: l’iperuranio o mondo delle idee. Alle altre fasce di popolazione spettano di conseguenza altri compiti che non comprendano l’esercizio speculativo. I guerrieri si devono impegnare nella difesa della cittadinanza e, nell’utopico stato platonico, la loro educazione mira a scoraggiare comportamenti individualistici o egoistici. La terza fascia, quella degli artigiani è la più immersa nella materia, e proprio la materia gli permette di vivere, rendendo l’individuo ancor più lontano dal mondo ideale e dalla possibilità di oziare. La filosofia era la regina tra le scienze, il gradino più alto da raggiungere, la vetta a cui ambire (a patto di un’adeguata disponibilità economica). Pensare in astratto e quindi filosofare non è né semplice né immediato e per questo richiedeva e richiede tutt’ora tempo e studio (ad esempio una buona conoscenza della matematica, anch’essa disciplina che studia l’astratto, la geometria, la musica, ecc.).

Con il passare del tempo, nel mondo occidentale la filosofia perde il suo primato in favore della teologia. Lo studio della teologia è da sempre gestito dalla Chiesa e dai suoi prelati. È opportuno precisare che se oggi possiamo vantare la conoscenza dei padri della filosofia occidentale dobbiamo essere in parte riconoscenti all’opera di conciliazione tra filosofia greca (quindi potenziale condanna all’eresia) e dogmi della cristianità, di Alberto Magno e del suo ben più noto discepolo Tommaso d’Aquino (due esponenti dell’ordine mendicante domenicano); entrambi impegnati in attività tutt’altro che manuali. Nel Medioevo permane quindi la convinzione che l’attività speculativa sia un’occupazione totalizzante.

Bisogna aspettare l’avvento della modernità e quindi della rivoluzione industriale affinché la visione del lavoro diventi più simile alla nostra, cioè legata a doppio filo con la materia. La nascita delle nuove tecnologie e la fiducia nel progresso dinamico ha tremendamente affascinato l’uomo nonostante si rendesse conto che questi stava repentinamente subendo una doppia sostituzione da un lato una fisica (la macchina prende il posto delle braccia dell’uomo) dall’altro una che tocca l’uomo nel suo essere più profondo: una forma di alienazione (non solo dal prodotto realizzato tramite il lavoro). Ora non ci sorprende troppo constatare che molti termini dialettali per indicare il lavoro richiamano lo sforzo fisico dell’individuo: faticare, travagghiari, travajé, travajàre, ecc. Questa è solo una delle tante testimonianze in grado di ricordarci che il passato ci appartiene e che lavorare significhi ancora essere immerso nella materia e nella storia.

Sarebbe giusto concludere rammentando che il lavoro è fondamentale perché dà la possibilità concreta di costruire un futuro, ma non è la sola cosa che conti e non può definirci, renderci schiavi o individui etichettabili. Il lavoro è un’opportunità importante che domina una parte della nostra esistenza ma non ci deve impedire di vivere e compiere scelte indipendenti dalla nostra occupazione professionale. Le nuove generazioni dovrebbero imparare a saper scindere i vari aspetti della loro vita dando a ciascuno il giusto peso e ridefinendo le proprie priorità di uomini liberi (nel senso eticamente più nobile), tanto da non essere assorbiti dal lavoro da una parte e dal pensiero unico dall’altra, per non ritrovarsi ad essere solidali alle sole “povere vittime” di razzismo in America piuttosto che, per dirne una, ai terremotati che da tre anni aspettano inutilmente Godot: un aiuto, un gesto, un po’ di considerazione, ma a quanto pare la solidarietà è figlia della distanza e dell’ignoranza.