Di Bianca
La famiglia: una delle istituzioni contro le quali più duramente si stanno scagliando i benpensanti umanitari, farneticando di qualche baluardo polveroso del sovranismo (lo spauracchio per eccellenza), nonché alludendo a una costruzione sociale inibente dove la donna riveste sempre e comunque un ruolo da schiava, costretta a sobbarcarsi questa dura imposizione della società (che, come sovranismo, è un termine che si può usare comodamente come capro espiatorio in caso di necessità).
Se poi la famiglia viene assolta dai nostri eroi del politicamente corretto, subisce lo stravolgimento se non la totale distruzione della sua struttura effettiva: uno sradicamento dei ruoli che da millenni compartecipano al nucleo fondante della società umana, oltre che alla prima comunità identitaria e di sangue con la quale l’individuo entra in contatto. Ed ecco che la famiglia tradizionale viene osteggiata da donne che si rifiutano di essere madri (“stanno bene così”); da donne che vendono il loro corpo per crescervi il figlio altrui; da coppie omosessuali che pretendono di essere lo stesso (se non meglio) delle datate e chiuse famiglie etero; e infine dalle immancabili crociate contro il tirannico pater familias.
Ma c’è un altro punto sostanziale della faccenda, che negli ultimi anni è diventato il protagonista nel folle e fanatico mirino del pensiero unico: il concetto dell’infanzia. E perché no, in fondo. I bambini derivano proprio da quel rapporto uomo-donna che è la mina vagante della sinistra progressista, oltre a concentrare la speranza e il futuro dell’inattuale e discriminatoria famiglia di cui sopra. Ma per quanto riguarda l’essere vulnerabili e condizionati dall’ambiente che circonda i bambini, i solidali signori sono opportunamente intervenuti. E non solo sull’incessante propaganda pro-immigrazionista, una classica garanzia di successo a tutte le età; ma anche e soprattutto approfittandosi di uno stadio specifico della crescita del bambino, che riguarda la presa di coscienza della propria sessualità (quindi del genere e del corpo) e in cosa questa si distingue da quella opposta. Un lento e costante processo che si avvia dall’inizio della scuola elementare per poi concretizzarsi ed evolversi in quello della scuola media, con l’arrivo della pubertà e l’inizio dell’adolescenza. Una fase in cui (inutile dirlo, o almeno così dovrebbe essere) si apprende, a diversi livelli, una chiara e netta distinzione: maschio e femmina.
Ecco a voi il limite scandaloso e indegno per la libertà delle generazioni a venire, le parole proibite dell’ideologia gender, e la bestemmia per eccellenza contro l’iconoclastia di tutti gli ismi affini. Non sia mai che gli infanti, a partire da un binomio così infido e ottuso, si costruiscano un’idea del mondo che sfoci in intollerabili manie sessiste e omotransfobiche. E i prodi battaglieri dell’uguaglianza sono subito corsi ai ripari.
Abbiamo assistito all’ingresso nei negozi di giocattoli delle Barbie gender-neutral. Abbiamo appreso dell’irrefrenabile desiderio dei genitori che i figli partecipino alle letture di favole da parte delle drag queen. Abbiamo anche constatato l’esistenza di libri per bambini che, oltre a essere farciti di integrazione e multiculturalismi vari, hanno come tema l’amore gay/lesbo che sboccia fra compagni di classe o d’asilo, o che accompagnano i bambini nei loro coloratissimi percorsi di transizione di genere.
E infine l’ultima geniale conquista dell’ideologia gender: l’affermazione dei queer kids, che spesso e volentieri includono i drag kids. Nella risma ben allestita delle numerose identità di genere, il queer è il soggetto che si rifiuta di rientrare nelle categorie imposte dalla cultura dominante, da un punto di vista sessuale e sociale; né maschio né femmina, né gay né etero (cioè l’essere non-binario). In parole povere, i queer ci insegnano che anche gli uomini possono portare lo smalto, che le donne non devono curare il loro aspetto perché donne, che il trucco non ha genere, e che anche gli uomini possono avere le mestruazioni. Il termine queer è anche una parola ombrello, poiché riassume tutte le minoranze di genere ma al tempo stesso nessuna di queste. Una comodità lessicale che racchiude più identità sessuali, qualora l’individuo non sappia spiegare diversamente le sue inclinazioni. Ora, se si riprende il discorso precedente sulla particolare fase di crescita del bambino che prevede l’approfondimento della propria sessualità, non è difficile immaginare quali risvolti psicologici, sociali e fisici interessino i giovanissimi che si avvicinano (che vengono avvicinati, cioè), a questo orientamento sessuale.
Dunque si parlava, in particolare, dei drag kids. Un vero fenomeno rivoluzionario nella comunità degli lgbtq+ e di tutto il polinomio macchinoso che segue. Perché non era sufficiente vedere foto di bambini di otto anni in posa con tacchi a spillo e minigonne colorate, o vederli partecipare orgogliosamente ai gay pride con altri abbigliamenti che non differiscono dai più spinti ostentati dagli adulti. Ora le nuove reclute delle lobby lgbt, entusiasti attivisti dell’arte di essere drag, si esibiscono con balli provocanti in night club e in locali gay, con parrucche, completi intimi e tacchi, davanti a un pubblico adorante che molto probabilmente il giorno dopo condanna la strumentalizzazione politica dei bambini da parte dei feroci disseminatori di odio. Quelle sì che sono giovani vite in pericolo, da salvare il prima possibile dalla morsa letale del pregiudizio e degli stereotipi di genere. Peccato che non tutti i fanciulli possano esprimere liberamente la loro identità in maniera così artistica e creativa, oltre a poter intraprendere un percorso interiore di conoscenza e accettazione di se stessi…
Così i genitori di questi giovani portenti giustificano la scelta fatta dai figli, ovviamente in assoluta libertà, dopo essere venuti semplicemente in contatto con la cultura gay aiutati da mamma e papà, per “corretta informazione”. E mamma e papà li sostengono con una mano che consegna loro ormoni per la transizione di genere e l’altra che punta il dito, ovviamente, contro coloro che criticano la sessualizzazione di piccoli che non hanno nemmeno terminato le elementari. Non c’è da stupirsi, infatti, se nei social sono numerosi i commenti che si dissociano da questo nuovo fenomeno; tanto che i genitori sono costantemente impegnati a proteggere i loro figli dai continui attacchi omofobici. Fra le regole che devono seguire le piccole star, c’è quella di non interagire con i troll e con gli hater. Interessante rivisitazione del tradizionale “non parlare con gli sconosciuti”. Perché gli utenti (molti dei quali genitori a loro volta) che commentano nei social quanto sia opinabile che certi padri e madri lascino i loro figli ballare mezzi nudi nei locali sono molto più pericolosi degli adulti che sottopalco applaudono entusiasti lanciando soldi, ovviamente. Meglio godersi lo spettacolo hot di minorenni in intimo e tacchi 12 che passare per retrogradi omotransfobici.
Dominique Hanke, madre della famosa Bracken, ai commenti che alludono a uno sfruttamento malato dei bambini da parte dei genitori, risponde che sarebbe proprio impedire a sua figlia di esibirsi in night club che le causerebbe danni alla sua salute mentale. “Tutti i bambini che stanno vivendo con quelle famiglie, sopprimendo la loro identità, sono quelli a rischio”, spiega. “C’è un grave tasso di suicidio e di problemi di autolesionismo nella gioventù queer”. Appunto.
E tutta questa attenzione riversata nello sviluppo e nella crescita “sana” dei bambini è anche rivolta, ovviamente, ai (presunti) giovanissimi profughi che approdano sulle nostre coste. E in questi casi i nostri paladini danno il meglio di sé, sfoderando l’armamentario pesante, a colpi di “se fosse tuo figlio” e di valanghe di post e spot inerenti alle sanguinarie guerre in Libia… per non parlare della continua propaganda politica nelle scuole.
Ma quando si parla di Bibbiano, tutte queste voci fautrici di bontà e giustizia si spengono. Nessuna parola sul genocidio dei bianchi che da anni insanguina la terra del Sudafrica, dove i peggiori massacri non escludono nemmeno i più indifesi. Silenzio assoluto su Cannon Hinnant, il bambino di 5 anni che è stato freddamente assassinato con un colpo di pistola sulla nuca da Darius Sessoms, afroamericano di 25 anni (tanto per citare l’ultimo caso di cronaca). Zero considerazioni sui figli delle famiglie italiane in difficoltà a serio rischio abitativo. E tutta questa cultura dell’infanzia, elogiata come garanzia di sincerità, bontà, inclusione, affetto e di apertura verso il mondo esterno scompare quando il bambino in questione deve ancora nascere. E allora diventa solo un ammasso di cellule incosciente della propria esistenza, uno sputo biologico al quale nulla tange se la madre ricorre all’aborto, perché tanto non soffre, è solo un ostacolo alla piena realizzazione della donna. Come se la potenzialità di una forma di vita ne determinasse l’importanza.
Questioni che non ci stupiscono. E i drag kids sono un ulteriore, inevitabile passo avanti verso l’ennesima appropriazione ideologica di un contesto che dovrebbe del tutto esserne privo. I bambini, come si sa, devono essere guidati, sia nella crescita sia nell’approccio all’informazione, da un adulto serio e responsabile che possa insegnare loro come conoscere il mondo adoperando uno spirito critico. È logico che diversamente sviluppino idee fuorvianti dalla realtà e nozioni limitate a un solo aspetto di essa: e qui si ritorna ai queer kids, contro i quali nulla si può dire, perché la loro unica colpa è stata quella di nascere in un contesto che ha impedito loro di vivere liberamente la loro infanzia. La responsabilità è di altri: dei genitori, della cultura dominante spacciata per minoranza, e di un sistema marcio in cui la sinistra liberal-progressista ci mostra il vero volto della sua umanità.
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