Di Tommaso
Milioni di spettatori a un paio di centimetri dagli atleti, salite che hanno segnato la storia, non solo sportiva, di un’intera nazione, nessun tipo di aiuto tecnologico, solo l’essere umano, sui pedali, con le sue gambe, contro i propri limiti. Cosa potrebbe limitare la nobiltà di questo sport?
Già, la farmacia, o doping. Purtroppo l’immagine del ciclismo negli anni è stata falcidiata da questo fenomeno, una pratica in vigore sin dagli albori e progredita, degenerata, a cavallo degli anni 2000.
Tuttavia ascoltare le chiacchiere da bar in merito al doping è quantomeno fuorviante, quando se ne parla bisogna partire smontando subito quello che è un diffusissimo luogo comune: il doping non serve a fare meno fatica, casomai il contrario. “Eh con quel che prendono sarei capace anche io”, mai affermazione potrà essere più sbagliata. Seppur esistano svariati tipi di aiuti farmacologici cui si può attingere, la base è che se non si è super allenati non solo il doping non funziona, addirittura il dopingingolfa, rallenta un motore che, nel caso dei professionisti, è al limite delle possibilità umane.
“I ciclisti sono tutti dopati”, altra assurdità. I ciclisti sono gli atleti più controllati e questo ha portato, almeno fino a qualche anno fa, ad avere un elevato numero di positività. Nel 2005 i ciclisti hanno aderito all’ADAMS, un protocollo che rende reperibili gli atleti 24/7, 365 giorni all’anno, dovendo dichiarare con 3 mesi di anticipo i luoghi dove si troveranno, alleneranno e dormiranno ogni giorno, per potersi prestare a controlli antidoping a sorpresa anche fuori competizione. Non è abbastanza? Tutti i ciclisti sono dotati di un passaporto biologico: una serie di valori standard per ogni atleta e una differenza significativa da questi valori può comportare una squalifica anche in assenza di positività a sostanze illegali.
Viene a questo punto da chiedersi come, e soprattutto perchè, un ciclista possa assumere sostanze proibite nonostante questo tipo di controlli, ed è qua che deve essere svelato il mondo ipocrita che circonda questo sport.
Chi sono i veri colpevoli? I ciclisti o chi, senza sporcarsi le mani, impone di fatto tale pratica?
Ma chi obbliga gli atleti a doparsi? Le televisioni, che pretendono di portare sugli schermi tappe da 200km ma da terminare entro le 17:30, obbligando i ciclisti a tenere medie vertiginose (sopra i 45km/h per oltre 5 ore); le società organizzatrici, che sottostanno ai voleri delle televisioni e le stesse squadre, che, conscie dell’impossibilità di sostenere quei ritmi a pane e acqua, pretendono il raggiungimento di certi obiettivi per rinnovare i contratti, si assicurano che gli atleti siano curati, ma licenziano gli atleti che si fanno trovare positivi, lavandosene le mani e prendendo le distanze da certi comportamenti.
Le squadre più importanti e influenti riescono a sapere in anticipo quando avverrà un controllo a sorpresa, avvisando così i propri atleti, oppure si possono permettere medici all’avanguardia, sempre sul pezzo e capaci di avvisare la squadra qualora venga attuato un nuovo sistema antidoping in grado di rintracciare certe sostanze, subito da sostituire con nuove formule.
Non solo, a volte i motivi di tale ipocrisia sono anche politici. All’inizio degli anni 2000, quando in Italia si passò da un governo di centrodestra a uno di centrosinistra, si vide nel CONI un ottimo strumento per screditare l’operato del precedente Governo, e con la scusa della lotta al doping vennero attuati dei controlli a tappeto e mirati, per trovare positivi tra i grandi nomi, facendo parlare la stampa e ottenendo credibilità. La notte precedente alla diciottesima tappa del Giro d’Italia 2001 i NAS perquisirono gli alberghi dove alloggiavano le squadre e il giorno dopo, per protesta, i ciclisti decisero di non prendere il via alla tappa, facendola annullare. L’obiettivo di quella retata, per fare scalpore, era Marco Pantani.
Le conseguenze di questa manovra politica non si fermarono alla retata: tutti i medici che si rifiutarono di lavorare con il CONI vennero deferiti, con il divieto assoluto per gli atleti di frequentarli. A rimetterci fu Danilo Di Luca, vincitore del Giro 2007, e squalificato per la frequentazione del dottor Carlo Santuccione, suo medico dall’infanzia.
Credo che sia evidente a questo punto che la salvezza di questo sport, di per sé nobile e puro, non dipenda dagli atleti, che si sottopongono a cure di ogni genere pur di restare a galla, ma che dipenda da chi dirige dall’alto il ciclismo: un’inversione della rotta è non solo auspicabile, ma necessaria, per ridare credibilità a uno sport bellissimo, ma avvolto dall’ipocrisia.
Commenti recenti