Di Sergio
Non sono passati nemmeno due giorni da quando il movimento del Fulmine Cerchiato ha dato all’Italia l’esempio di una gioventù libera, non allineata, che liberamente prende il suo posto, in piedi, a difesa dei simboli di una Nazione. Ci avranno sentito aldilà dell’Oceano? Non lo sappiamo, ma la lezione che la calciatrice americana Sam Leshnak ha dato al suo Paese – e anche a noi che siamo sempre pronti a captare le frequenze del coraggio – è tra quelle più esemplari, che non si dimenticano. Se è vero che sono le piccole azioni quotidiane, quelle della gente comune, che tengono a bada l’oscurità, ecco il portiere di riserva del North Carolina Courage, squadra di calcio femminile statunitense, che si rifiuta di inginocchiarsi. Semplice.
Nel mondo dell’assurdo, un atto naturale come quello di restare in piedi durante l’Inno nazionale fa eco, rimbomba, soprattutto se tutto il mondo ha deciso che inginocchiarsi è giusto, necessario, dovuto. Ma esattamente, a cosa ci dovremmo inginocchiare? O meglio, a chi? Il tributo che viene richiesto come una tassa occulta a chi è rivolto? A George Floyd? Chi si inginocchia crede veramente che stia tributando una sorta di onore al pregiudicato ucciso dalla polizia? Come sempre, quando di mezzo entra a gamba tesa il fattore razziale, scaturisce nel contorto mondo occidentale una forma di autocolpevolezza che in qualche modo rende non “uno” ma tutti i bianchi colpevoli. Ecco la gara a chi si genuflette di più, ecco le aziende primeggiare nella rimozione di riferimenti al colore bianco, ecco la cagnara antifascista e gli sfregi alle statue. Se il tributo non viene imposto direttamente, ci pensiamo da soli a “leccare il culo”, come nel malaugurato caso dell’Inno italiano storpiato da una mezza star pescata dal cilindro prima della finale di Coppa Italia. Anche in quel caso la domanda resta la stessa: serviva veramente? La risposta, ovviamente, è no. Ma ormai il senno e la ragione sembrano aver abbandonato per sempre i lidi occidentali, che pure sulla maestà della ragione dei lumi ha costruito la sua ragion d’essere, per rifugiarsi in poche minoranze ancora in grado di vedere la verità. Torna alla mente la famosa fiaba di Andersen (I vestiti nuovi dell’Imperatore) in cui il Re, nella sua infinita vanità ed arroganza, gira nudo per strada convinto di essere coperto da un tessuto prezioso ed invisibile. Nessuno lo ferma, nessuno lo deride, anzi è una gara a chi lo asseconda di più, a chi lo copre con maggiori plausi e complimenti per il suo bellissimo vestito invisibile, a chi si inchina di più davanti alla sua magnificenza. Solo un bambino esclama, ingenuamente, “Il re è nudo”.
Eccolo il nostro mondo, terribilmente simile ad una fiaba del diciannovesimo secolo. Se dire la verità è un atto rivoluzionario, il dovere delle minoranze è quello di mettere in luce le nudità di questo mondo marcio e vanesio che si autocompiace della sua stessa distruzione. Perché quello che industriali, star e cantanti, giornalisti e politici non capiscono (o fanno finta di non capire) è che al contrario nostro qualcuno sta pensando da razza, qualcuno sta pensando da religioso, qualcuno sta pensando in maniera tribale. Cosa ci sia di genuino o meno nel movimento Black Lives Matter, ovvero cosa ci sia di vera rivalsa e quanto di finanziamento esterno, non ci è ancora dato sapere. Ma chi ora sta distruggendo monumenti e negozi lo fa con un intenzione molto più chiara e genuina di chi si sta servendo di loro per farsi bello per le prossime elezioni in ossequio alla moda politicamente corretta del momento.
Samantha in piedi come noi. Una minoranza che minoranza non è. Perché se c’è una menzogna più infame che questo Re indossa, è proprio quella che fa credere a noi di essere in pochi, di essere esclusi ed emarginati, di essere pazzi da riformattare da zero. Siamo di fronte al paradosso di un mondo che è contro la forma e contro lo stile, che afferma la morte dei simboli e delle ideologie, ma che vive del loro stesso riflesso. Per assurdo, hanno bisogno di vedere le persone inginocchiate, che è uno dei simboli di supremazia più antichi ed arcaici, tribali se vogliamo, che esistano al mondo.
Ecco il punto: contro il deforme affermare la forma. Allo sproloquio il verbo. Alla bruttezza la bellezza. Alzatevi in piedi e tenete la schiena dritta: è un primo passo dal non essere verso l’essere. Dall’animale all’umano. Tornano alla mente le parole di un film visto e rivisto, ma che non smette mai con la sua potenza estetica di metterci di fronte a noi stessi. È la scena di 300 in cui Serse corrompe sapientemente l’archetipo del traditore, Efialte, per riuscire a vincere la tenace opposizione spartana alle Termopili.
Efialte è deforme, storpio, ha difficoltà a camminare. Serse dopo avergli promesso l’oro, le donne e il rango gli chiede un tributo apparentemente magnanimo: quello di inchinarsi. “A differenza del crudele Leonida che ti ha imposto di alzarti, io esigo soltanto che ti inginocchi”. Una frase in cui si intravede la divisione attuale del mondo. La scelta facile di prostrarsi o quella difficile di restare in piedi. Siamo sempre alla ricerca di momenti che ci facciano dimostrare il nostro valore: questo è quel momento. Il momento in cui lo stile è tutto, anche contro le rappresaglie. Stanno esigendo un tributo per farci vivere tranquilli, per farci lavorare, altrimenti ci saranno licenziamenti in tronco, carriere finite e famiglie distrutte. Chi non si inginocchia sarà moralmente distrutto, almeno fino a quando non si esigerà la distruzione totale.
L’unica cosa che si può fare è semplice: restare in piedi.
“La fragola profumata fiorisce sotto l’ortica; ed è vicino ai frutti selvatici, che le piante salutari s’innalzano e maturano di più…”
Shakespeare, chissà per quanto potremo ancora leggerlo… Ma ciò che deve restare da questo periodo è proprio questo: nuovo esempi da far crescere come alberi.
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