Di Sergio
“Io penso con i piedi, non con la testa”.
Eccoci alla terza parte di questo viaggio sconnesso sulle orme di una generazione e su quelle del suo apostolo ed inventore: Jack Kerouac. La frase sopra riportata non è sua, ma potrebbe esserlo tranquillamente. In realtà è di un filosofo tedesco vissuto nel secolo precedente al suo, morto solo ventidue anni prima della sua nascita. È Nietzsche, Friedrich Nietzsche, l’uomo della volontà di potenza e dell’eterno ritorno, un altro vagabondo ed errante spirito libero sulla strada, morto in una spirale di follia senza spiegazione. Ecco cos’era per Nietzsche l’ispirazione: una rivelazione, l’”apparizione di un’idea”, quando camminando solitario per le regioni dell’Alta Engadina (sulle Alpi svizzere) “a seimila piedi di sopra le città e gli uomini”, aveva la visione delle idee che risorgevano in lui come un fiume carsico, quando sconnesso il cervello e la ragione pensava attraverso l’azione, il moto, il cammino in salita. Fu così che ebbe l’apparizione dell’eterno ritorno, vicino ad una roccia sulle sponde del lago alpino di Silvaplana. Cosa centra, vi chiederete. Tutto.
Nella prima parte di questa storia si era accennato alla Beat Generation come ad un ultimo tentativo a stelle e strisce di dare un senso ed un mito divino, “europeo”, ad un’America borghese, materialista, puritana ed intimamente ipocrita. Ciò che Kerouac tenta, o fa tentare ai personaggi dei suoi romanzi, è un viaggio di ritorno verso casa. Non la casa intesa come abitazione in affitto, ma casa come Patria, come dimora dello spirito, come l’archetipo di Itaca, la terra di Ulisse e dell’Odissea, da cui tutto inizia e tutto finisce per poi ri-cominciare. È ne “I vagabondi del Dharma” che si materializza la visione dello scrittore di Lowell nei confronti dei giovani, alla ricerca di altro rispetto al mondo che li circonda: zaino in spalla, scarpe arrangiate e la volontà di mettersi sulle strade e i sentieri di montagna. Ecco il viaggio come metafora della vita e della ricerca interiore delle nostre origini, il mito delle cime e del sincretismo religioso. Nulla di lontano (a dire il vero) dall’epopea “nostrana”, nel senso Europea, della gioventù tedesca che nel novecento diede vita ai Wandervogel (uccelli vagabondi). L’ethos dell’organizzazione, la visione della vita, era proprio quella di scrollarsi di dosso le restrizioni e le ipocrisie della società borghese, i suoi falsi idoli, per tornare alla libertà della Natura. Una visione nietzscheana dell’esistenza, la visione che appare sulle cime del Nord America è la stessa che avvolge il pellegrino di Sils-Maria durante le sue ascese. Una visione intimamente europea, europea perché profondamente pagana. Non pagana alla wicca, ma pagana nel senso di panteistica: cioè che riconosce il divino in tutto ciò che ci circonda, in tutto ciò che ci accade, in tutto ciò che vive, che riconosce la bellezza della vita che sempre ritornerà, come le stagioni, come i fiumi nel loro eterno ritorno alla sorgente, all’origine.
“Ciascuna cosa, ciascun essere, ciascun filo d’erba che oggi calpesti, ciascuna speranza, ciascun errore. Questo anello del quale tu sei una piccola gemma tornerà a brillare eternamente”.
Una visione che in Kerouac prende vita nei suoi personaggi, e forse anche in una parte della sua vita, quella vissuta in strada alla rincorsa dell’ebrezza come musa ispiratrice. Se pensate che i personaggi siano meno importanti della vita dell’autore, potreste sbagliarvi. Se pensate che Nietzsche era ciò che scriveva cadete in un grossolano errore: goffo, malaticcio, timido con le donne, spesso pedante, solitario e perbenino. Eppure, le sue caratteristiche non tolgono nulla alla sua opera, perché è proprio attraverso la sua opera che supera sé stesso e si proietta aldilà della sua vita e delle sue debolezze. Così si potrebbe penare che Jack Kerouac ha predicato bene ma razzolato male: in realtà ha predicato ciò che era, senza sé e senza ma, nessun moralismo straccione e nemmeno un briciolo di rimpianto. Ciò che di rivoluzionario è il pensiero e la vita del padre dei Beat è proprio il ritorno (in pieno boom economico) sulle postazioni dell’essere e non dell’apparire: “che me ne importava della torre dei demoni, e dello sperma e delle ossa e della polvere, mi sentivo libero e perciò ero libero”. Non servono messia, capri espiatori, ciò che Kerouac ci lascia è una prassi della volontà: siamo noi i responsabili, gli unici, della nostra vita. Liberty is a duty, avrebbe detto Ez. Vivi in modo tale che tu desideri tornare a vivere, è l’imperativo di Nietzsche per l’uomo che verrà. Tutto torna, anche il leitmotiv di una tradizione che scorre sotterranea per riproporsi sempre, in modi diversi e in luoghi diversi, attraverso la storia. È la tradizione omerica dell’Odissea, è l’eterno racconto di Teseo nel labirinto, è il vagabondo per eccellenza, Wotan (Odino), spirito errante dell’epopea norrena che non disdegnava sesso e bevute “divine” durante le sue soste. Ma qual è il mondo che Jack vede dispiegarsi sulle strade che corrono verso l’ovest, durante le sue erranti gesta?
„[…] è un mondo pieno di nomadi col sacco sulle spalle, Vagabondi del Dharma che si rifiutano di aderire alle generali richieste ch’essi consumino prodotti e perciò siano costretti a lavorare per ottenere il privilegio di consumare tutte quelle schifezze che tanto nemmeno volevano veramente come frigoriferi, apparecchi televisivi, macchine, almeno macchine nuove ultimo modello, certe brillantine per capelli e deodoranti e generale robaccia che una settimana dopo si finisce col vedere nell’immondezza, tutti prigionieri di un sistema di lavora, produci, consuma, lavora, produci, consuma, ho negli occhi la visione di un’immensa rivoluzione di zaini migliaia o addirittura milioni di giovani americani che vanno in giro con uno zaino, che salgono sulle montagne per pregare, fanno ridere i bambini e rendono allegri i vecchi, fanno felici le ragazze e ancor più felici le vecchie, tutti Pazzi Zen che vanno in giro scrivendo poesie che per puro caso spuntano nella loro testa senza una ragione al mondo e inoltre essendo gentili nonché con certi strani imprevedibili gesti continuano a elargire visioni di libertà eterna a ognuno e a tutte le creature viventi…“
Ciò che torna a noi attraverso I vagabondi del Dharma è solo un’altra apparizione dei nostri “temi cari”, quelli che ci accompagnano nelle lotte quotidiane. È la ricerca della libertà, il tentativo di emancipazione dell’uomo dallo schiavismo del tempo lineare: il tempo che qualcuno ha deciso di fermare sulle posizioni del liberismo, della democrazia, del capitalismo, del libero mercato. Tutto è finito, questo è il migliore dei mondi possibili, evviva lo status-quo. Ma è la strada ad insegnarci che la storia non è mai finita, che la via per essere liberi è fuori dagli schemi preconfezionati, che c’è sempre un sentiero che ri-torna verso casa e che, soprattutto, un sentiero si può aprire anche nel fitto di una foresta quando nessuno lo vede. Sfido chi sta leggendo a non sentirsi alieno da questo mondo, a sentirsi in frequenza con le persone che lo circondano. “Non si può vivere in questo mondo”, siamo tutti d’accordo, ma è anche vero che “non c’è nessun altro luogo dove andare”.
Quindi, come direbbe qualcun altro che conosciamo bene: gambe in spalla e pedalare!
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