Di Bianca

Sei nomination all’Oscar, due al Golden Globes, vincitore del premio per la migliore sceneggiatura non originale sia nella prima categoria sia nella premiazione BAFTA. Partorito dalla mente di Taika Waititi (la stella neozelandese regista di Thor Ragnarok, per intenderci), e tratto dal romanzo Come semi d’autunno di Christine Leunens. Ecco a voi Jojo Rabbit, film che ha deliziato gli occhi delle platee mondiali a partire dall’anno scorso e uscito ufficialmente Italia il 16 gennaio di quest’anno.

Una pellicola prevedibilmente acclamata dai nostri media. Ecco una nuova parodia del nazifascismo che fa togliere qualche sassolino dalla scarpa in merito a spunti ai quali aggrapparsi nei dibattiti. Le ragioni di tale accoglienza sono intuitive e ormai scontate, ma analizziamo in maniera più approfondita cosa ci offre questo capolavoro, la cui visione si può subire (la sottoscritta conferma) ma che in fondo può anche suscitare della curiosità.

Il film segue le vicende del piccolo Johannes (Jojo) Betzler, di dieci anni e arruolato fra le file della Jungvolk. Jojo vive nella Germania del 1945, messa in ginocchio dalla Seconda Guerra Mondiale, ma viene presentato come un inguaribile ottimista devoto alla Germania, ottusamente convinto del benessere della sua Nazione: una giovane vita accecata dalla propaganda e succube di un’idea impostagli da una società paradossale, tragicomica, completamente estranea dalla realtà (vi ricorda qualcosa?).

Jojo è motivato inoltre dal suo fedele amico immaginario, il Führer stesso, che lo accompagna in un mondo allegro, quasi fiabesco e comicamente stereotipato, dove “Heil Hitler” occupa in sostanza la metà dei dialoghi che si scambiano i personaggi (diventando persino un verbo, “heil-hitlerare”). Ma quando Jojo si ferisce banalmente con una granata durante il campo di addestramento della Jungvolk ed è costretto a casa, scopre che la madre nasconde una giovane ebrea in casa, e da quel momento in poi per il resto della trama dovrà fare i conti con l’assurdità della sua ideologia e riconoscere la realtà.

Sulla natura delle ideologie in campo durante la Seconda Guerra Mondiale, sulle azioni intraprese in combattimento e sugli esiti del conflitto si sono scritte (e tutt’ora si stanno scrivendo, e raramente a ragione) infinite pagine: discorsi che ben conosciamo. Restando al film, in realtà non è che il solito arsenale di cliché a cui ricorrono insistentemente i nostri paladini: il disprezzo per la cultura, un’irrisoria adulazione della guerra, l’ossessione per gli ebrei e riprese varie dell’enfasi dei discorsi di Hitler.

Ritroviamo inoltre l’immancabile caricatura che sta dominando l’intrattenimento mediatico negli ultimi tempi, cioè la ragazza spaccaculi badass, nonché la stessa ebrea che Jojo si ritrova dietro al muro. Un’ebrea cazzutissima, che nel primo periodo della loro conoscenza bullizza il nostro povero protagonista regalandoci una serie di battute giuste dette al momento giusto, che riassumono certi rancori che fermentano gli animi della maggior parte degli spettatori.

Non meno importante e posta in risalto è la disperata estremizzazione della violenza gratuita e della cieca volontà di combattere e di dare la vita per la Patria. Lo vediamo già all’inizio della pellicola, nell’addestramento dei giovanissimi della Gioventù Hitleriana, che viene ridotto al peggiore campo estivo della parrocchia, con l’eccezionalità che i partecipanti si autopugnalano per sbaglio lanciando coltelli contro agli alberi. Insomma, un vademecum su come rappresentare una presunta idiozia con metodi altrettanto e più idioti. Il tutto condito dall’entusiasta esclamazione “preparate le vostre cose, ragazzi, è ora di bruciare qualche libro!“, un mero atto piromane che ignora completamente il vasto contributo culturale, artistico e storico della Germania nazionalsocialista. Ovviamente.

E come ride il pubblico nelle sale quando un giovane va a farsi saltare in aria per una cosa effimera come un ideale, applaudito dagli esaltati del regime! Quale assurdità, quale follia, quale futilità e quale spreco dare la vita per un pugno di valori! Ma si sa, l’ideologia non paga. E lo sa bene questa nostra società arroccata nei social, a consumarsi gli occhi davanti agli schermi, col culo che sprofonda nel divano, vomitando hashtag e challenge, sudando il grasso degli Oreo e dei Big Mac e frignando nelle storie che ha stato lui, che sta tornando, si salvi chi può. Lo sa eccome, trascinando la sua vuota esistenza fra tornaconti e guadagni da consumare solo per continuare a drogarsi di quello che non ha. Eccolo, il nostro vero esempio. Altro che sfegatati pazzoidi che sono disposti a rischiare tutto per un banale pensiero.

Un concetto magistralmente riassunto da Svart Jugend, che dichiara:Avete scambiato l’ebbrezza con l’isteria, l’uomo con l’umano, il sacro con il privato, la legge con la legalità, la cultura con il nozionismo, l’arte con la creatività, il sacrificio con la rinuncia, l’etica con il costume, la libertà con l’edonismo, l’amore con il possesso, la morte per un torto a chi resta – siete già finiti, implosi, sconfitti, mai nati, così distanti da questa stirpe da non esserne nemmeno più la caricatura. Dai “je suis” vari al “diritto di amare” avete dato il massimo nel campionato mondiale di isteria […](Fuori piove sangue).Non serve specificare quanto deridere e ridicolizzare il nemico sia molto più facile che affrontarlo e combatterlo. Non che lo sfottò e la provocazione dell’avversario siano una prerogativa dei vigliacchi sputasentenze e dei leoni da tastiera, anzi. Un chiarissimo esempio ci viene dato dagli stessi Arditi che cent’anni fa facevano tremare le vene del nemico sul campo, con il loro fare burlesco, irriverente, sfacciato, incurante di tutto e di tutti, sempre pronto a combattere, a rischiare la vita in nome di una libertà guerriera e per questo autentica. Una libertà che però non è individualista né egocentrica né in posa, ma inquadrata in una disciplina e che da essa viene mossa a conquistare e a conquistarsi. Una libertà audace che non è la libertà carina e coccolosa che deve essere propinata, no, è la libertà che va incontro all’avversario col pugnale fra i denti e armata di bomba a mano, e che è diventata eterno simbolo di coloro che sono davvero al di fuori di ogni forma di schiavitù.


Ben altro discorso è quando si ridicolizza perché, semplicemente, non si sa come rispondere. Quando le idee sono riflessi e non illuminano, quando vivono “per” e non “di e i loro esponenti aspettano nascosti dietro l’angolo sbirciando l’avversario, a spiare la prossima mossa, il prossimo infamante affronto per il quale scandalizzarsi, battere i piedi, processare, evocare astratti allarmismi e pericoli da processare e contro i quali scandalizzarsi e battere i piedi. Oppure farci un film rappresentando la realtà incriminata, o meglio, rappresentare ciò che si pensa che essa sia, o ciò che si vorrebbe che fosse, perché più facile da accettare come inaccettabile.

E ovviamente è ancora più comodo perculare gli avversari presupponendo un contesto che non corrisponde minimamente alla realtà storica. Quest’ultima, infatti, vedeva un autentico timore da parte dei soldati sovietici in prospettiva di un attacco a Berlino. La fedeltà e la disposizione al sacrificio dei soldati tedeschi, senza escludere il coraggio degli arruolati della Gioventù Hitleriana, erano ben conosciuti agli eserciti avversari; la loro volontà di combattere fino alla morte, per una causa considerata da altri persa in partenza, allarmava e non poco gli uomini che oggi sono conosciuti come i “liberatori senza paura“. Tanto che i commissari politici comunisti arrivarono a minacciare i loro soldati con le pistole per costringerli ad assediare Berlino, dal momento che i combattenti russi non erano molto convinti della riuscita dell’attacco.

La capitale nel film viene inoltre difesa dagli stessi iscritti al campo estivo della Jungvolk: quindi, dei ritardati. Tanto che Yorki, il migliore amico di Jojo, anche lui appartenente alla Jungvolk, ci regala una perla: “Non so se eravamo dalla parte giusta“. Frase che nei sogni degli antinazifascisti verrebbe pronunciata da chi elude il pensiero unico e iconoclasta che loro tanto ridicolmente si apprestano a difendere. Eppure, i primi a doversela prendere per questa goliardica pellicola sono proprio coloro che combatterono quel fatidico giorno a Berlino. Non è forse logico notare che sminuendo i nemici si sminuiscono di conseguenza anche i “buoni” che lottarono contro di loro? Che valore dovrebbero avere, allora, questi amatissimi paladini della libertà?

Ecco perché gli adulatori della satira di Jojo Rabbit finiscono per diventare la parodia di loro stessi. Perché, rifacendosi a una visione più generale, non c’è solo ciò per combatti e ciò contro cui combatti, ma anche come combatti. E spesso quello che rimane, quello che conta davvero è il mezzo con cui porti avanti la lotta.

Ci sono ideali e ci sono idee.
Ci sono strategie e ci sono istruzioni.
Ci sono atti di fede e ci sono rivendicazioni.
Ci sono sacrifici e ci sono interessi.
Ci sono guerre e ci sono guerriglie.
La differenza è la legittimità del pensiero. Ed è tutta qui.