Di Marta
E il Fuoco Segreto fu inviato ad ardere nel cuore del Mondo.
Inizia così Arda, l’universo nato dall’inchiostro della penna di J.R.R. Tolkien, con un fuoco inviato ad ardere nel cuore del mondo di cui diventa centro e cardine.
Non è un caso. Il fantastico qui non è mezzo di evasione o, se vogliamo, di consolazione per fuggire una modernità che va a volte fin troppo stretta, no. La visione di Tolkien è molto più profonda e punta molto più lontano. Quello che nasce dalle pagine de Il Signore degli Anelli è una rappresentazione, sicuramente fantastica, ma neanche troppo distante da quel Mondo Primario cui apparteniamo, dei miti fondanti dello spirito indoeuropeo.
«La Terra di Mezzo – si troverà a dire lo scrittore – non è un mondo immaginario; il nome è la forma moderna di midden-erd / middel-erd, un antico nome per l’οἰκουμένη, la dimora degli uomini, il mondo oggettivamente reale contrapposto nell’uso specicamente ai mondi immaginari (come il Paese delle favole) o invisibili (come Paradiso e Inferno)».
Allora ecco che, proprio perché di un mondo immaginario non si tratta, l’inizio di tutto è un fuoco, anzi, il Fuoco, Eä, che altro non è che il Mondo che è manifesto ed essenza divina di Eru-Illuvatar, l’Uno-indefinito della Tradizione iperborea da cui derivano i numina, gli Ainur dell’universo tolkieniano che danno forma al mondo.
Fuoco come inizio, dunque, come centro intorno a cui si riuniscono le genti, le famiglie, le comunità. Fuoco come vincolo sacro che lega indissolubilmente chi se ne fa custode e portatore.
Questo quanto troviamo nelle pagine del Signore degli Anelli, del Silmarillion o dello Hobbit dove anche l’avventura di Bilbo inizia con una riunione inaspettata, certo, ma illuminata dal fuoco.
Il Signore degli Anelli ri-crea il mito e ne espleta tutte e quattro le funzioni: mistica, cosmologica, culturale e iniziatica.
Ci ricorda, elegantemente ma con decisione, quella che è la Weltanschauung che da millenni anima chi, materialmente e metaforicamente, ha deciso di combattere in una ben precisa trincea ideale.
Gli eroi di Arda sono quegli stessi esempi cui noi quotidianamente guardiamo perché incarnazioni di quei valori di coraggio, lealtà, forza e sacrificio che fanno parte del nostro profondo e di cui, soprattutto in una quotidianità in cui sembrano essere quasi totalmente scomparsi, abbiamo bisogno, disperatamente bisogno.
Oggi siamo immersi in una modernità che è pieno dominio della materia, del concetto di macchina, dove scienza e tecnica diventano mezzi per livellare le coscienze, dissacrare il passato e uniformare il presente. La Mordor oscura di Tolkien è la modernità delle catene di montaggio, dell’individuo disumanizzato dimentico di se stesso, della sua comunità, delle sue origini. E Saruman, Saruman è l’emblema di questa modernità che cancella, nel nome di un falso progresso, ogni fonte di saggezza, ogni contatto con l’essenza e col divino.
«Non vi era più nulla di verde in quest’ultimo periodo del regno di Saruman. […]
Migliaia di operai, servi, schiavi, guerrieri coi loro arsenali vi potevano vivere; in profonde tane sotterranee i lupi venivano nutriti e custoditi. Anche la pianura era stata scavata e forata: pozzi penetravano a grandi profondità nel terreno, mentre le bocche esterne erano mimetizzate da bassi cumuli di pietre, che al chiaro di luna facevano sembrare il Cerchio d’Isengard un cimitero di morti irrequieti».
Cosa fare allora? Il rischio, fin troppo reale, è quello del disfattismo, della resa di fronte a un’oscurità che sembra non avere fine. Il rischio è quello di lasciarsi ingannare dai miraggi del Signore Oscuro e dimenticare. Così Théoden dimentica se stesso e la sua razza e si abbruttisce, si china sotto il peso del fatalismo ma ancora una volta l’epopea tolkieniana ci viene in soccorso per dirci che non tutto è oscuro per chi ha fides.
Ed ecco l’immagine stupenda, viva del Re che ricorda, scacciata l’oscurità, la sua funzione, quella del guerriero, nel gesto simbolico e naturale dello sfoderare la spada.
«Le tue dita ricorderebbero più facilmente la loro antica forza se afferrassero l’elsa di una spada».
Sì, perché quello che ci dice il Signore degli Anelli è che non è il tempo della fuga né di rimanere chiusi in se stessi. È tempo, lo è sempre stato, di combattere a difesa di quel fuoco sacro da cui tutto è iniziato.
Combattono gli Uomini, combatte Aragorn, Elessar, rappresentazione del Sovrano Universale, e guida il suo popolo perché crede nella Vittoria.
Combatte Gandalf, ora il Bianco che riscopre la sua essenza divina e riaccende in sé quel Fuoco Segreto che guida ogni passo.
Combattono i piccoli hobbit che abbandonano le comodità della Contea per uno scopo più alto e ci dimostrano che anche alle creature più fragili è concesso orientare e ordinare i destini del mondo con lo spirito, con la ferma volontà.
Combattono e insorgono contro il fatalismo.
Allo stesso modo, a noi viene nuovamente concessa la possibilità di sfoderare la lama e combattere le orde di Sauron. Sì, perché Mordor non è stato definitivamente sconfitto e, come era tornato in silenzio nell’ombra di Bosco Atro, pian piano risorge e si rivela in altre forme. È la Quarta Era, quella in cui le creature magiche si nascondono agli occhi degli uomini, si celano, e gli eroi scompaiono perché non c’è nessuno che prenda il loro posto. È il mondo del progresso che annienta le culture, cancella i confini, rifiuta le identità.
Questa è l’oscurità che oggi dobbiamo combattere perché «non terminano mai i racconti. Sono i personaggi che vengono e se ne vanno, quando è terminata la loro parte».
La nostra parte è appena iniziata e ora c’è un altro fuoco che parte dalla nostra Amon Dîn, dalla nostra Torre, e chiama a raccolta le armi contro la peggiore oscurità: quella senza mito, senza tradizione, senza identità. Senza futuro.
Tocca a noi rispondere, risfoderando le spade.
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