Di Gullo
Se torniamo con la mente a quando l’Italia è stata divisa, quando il suo popolo lo è stato, quando ci siamo trovati a scegliere fra origini sacre e mito americano, sappiamo bene quale è stata la strada intrapresa; abbiamo deciso di diventare un popolo che dall’oggi al domani ha mutato, cambiato e adattato i propri valori in chiave consumistica, fra cui quello dell’ecologia.
Nonostante quelli noti come totalitarismi del ‘900, specie in Italia e Germania, abbiano dato moltissima attenzione e moltissimo spazio all’ambiente, al paesaggio, alle identità territoriali, l’ecologia – che richiama in maniera un po’ romantica l’oikos greca, la casa, così come fa notare Scianca sul numero del Primato Nazionale di novembre del 2019 – è stata lasciata in toto, o quasi, alla sinistra. A mio avviso, una delle maggiori colpe della destra italiana del secondo dopoguerra è stata quella di consentire che visioni aride e materialiste della vita abbracciassero e facessero propri temi come quello dell’ecologia. Lontani anni luce spiritualmente, culturalmente, antropologicamente e politicamente dalle visioni di giganti quali Arnaldo Mussolini, Walther Darrè, e gerarchi tedeschi che per primi inserirono nelle proprie Nazioni le feste dell’albero, il divieto di fumo nei locali, la tutela dei boschi, le istituzioni di parchi, il divieto alla vivisezione e le tematiche che oggi giovani fricchettoni ci propinano come nuove, quali il ritorno alla natura, il valore dell’uomo agricolo, le comunità rurali (come ad esempio la fantastica esperienza della Lega degli Artamani), e ancora energia verde, autosufficienza, consumo responsabile e quant’altro.
Ecco, tutte queste tematiche e moltissime altre ancora fanno in realtà parte del nostro sacro retaggio identitario. La sinistra è riuscita a trasformare la questione ecologica in edonismo ambientalista, a ridurla in consumo responsabile di prodotti green, bio, equi e solidali di chissà quale paese esotico, ignorando magari il costo dell’energia del trasporto o il costo ambientale per delle bacche di goji o il costo del disboscamento per la coltivazione di semi di quinoa, scordandosi l’importanza – forse volontariamente – anche del cibo identitario, del mangiare prodotti della propria terra: anche il nutrirsi, fisicamente e metafisicamente, di prodotti allogeni ed esotici, prodotti provenienti da chissà dove, coltivati da chissà chi e chissà su quali suoli, è un affronto e una de-strutturazione dell’uomo europeo, equivale a il far sembrare l’altro necessariamente migliore e più salutare solo perché l’etichetta lo afferma. Ogni popolo nasce, cresce e muore a contatto con un determinato suolo, caratterizzato da colori, profumi, piante, frutti e animali: variegare e internazionalizzare l’alimentazione forzatamente, spesso oltrepassando il limite del ridicolo non è necessariamente un arricchimento. Metafisicamente parlando, può essere letta come una forma di contaminazione dello spirito di un popolo.
Diceva un grande filosofo, Feuerbach, “siamo quello che mangiamo”. Eh sì, perché anche il cibo è cultura, anche il cibo rispecchia la terra, l’ambiente in cui un popolo vive, grazie a cui un popolo diventa conquistatore o viene assoggettato. A questo riguardo, val la pena complimentarsi col progetto IT – Scelte di identità e con l’immenso lavoro che stanno portando avanti, attraverso un’opera di ricerca di produttori di eccellenze enogastronomiche tipiche e fortemente legate al territorio, che sopravvivono alle multinazionali e fanno sopravvivere l’identità culinaria e i sapori originari. IT – Scelte d’identità si occupa di creare una rete tutta italiana e promuovere la cultura del mangiare come riscoperta identitaria.
Tornando a noi, un attacco celato all’insegna del qualunquismo verde per favorire la superficialità delle nuove generazioni, dei nostri coetanei che hanno perso il senso del tempo, che non sono più a contatto coi tempi della natura, i cicli lunari, le stagioni, la sacra divisione dell’anno in equinozi e solstizi: si demarca sempre più la differenza fra il tutto e subito, del tempo di un tweet o di una storia sui social, con la visione del mondo reale e concreto, scandito dai tempi dettati da quel fantastico nume o insieme di numi, noti come Madre natura. Ha prevalso per ora la visione marxista dell’ambiente, quella materialista, dove l’ambiente è altro, fa parte del capitale, sfrutta il valore d’uso, e rende utile materialmente tutto ciò che ci circonda. Come se prendersi cura di un bosco a priori, senza ottenerne nulla in cambio se non la pura contemplazione e ri-tempramento dello spirito non fosse sufficiente.
In effetti sarebbe troppo identitario un ritorno all’epoca pre-isterica, parlando di ambiente e paesaggio senza avere un approccio emotivo e fanatico. L’ambiente non è altro rispetto a noi, all’uomo. L’uomo non è staccato dall’ambiente, e non necessariamente lo deve sfruttare pur restandone sempre ed in qualunque caso custode. Perché l’ambiente del luogo vissuto è specchio della cultura di un popolo, è specchio della sua identità, è paesaggio: il paesaggio, non l’ambiente, è ciò che caratterizza i popoli, è la sua evoluzione in un certo senso. Il paesaggio è il tramite grazie al quale ci interfacciamo con un popolo che ha saputo integrarsi e plasmare un ambiente, rispettandolo e custodendolo come parte di sé. Il paesaggio rappresenta la visione dei grandi uomini e la maniera con cui gli uomini vedono l’ambiente, anzi, lo onorano e lo curano.
Lì dove c’erano distese di paludi, fanghi, belve feroci e zanzare della malaria, Romolo ha visto un’Urbe eterna, ed i suoi successori hanno visto la grandezza dei fori così come noi oggi li conosciamo. Anzi, più belli ancora. Lì dove c’era una laguna inospitale, oggi sorge Venezia. Chi mai oserebbe oggi distruggere tutto per lasciare spazio all’ambiente incontaminato, incontrastato e soprattutto non gestito, non governato? Nessuno. Nessuno arriverebbe ad un tale livello di fanatismo. A meno che non sia un fermo sostenitore della decrescita felice, ma questo è un altro discorso. D’altro canto, chi si dichiarerebbe felice di cementificare i fori o Firenze o Venezia, per stiparci tutti in micro-case a mo’ di alveare? Nessuno, a meno che non si abiti in Cina all’insegna del comunismo capitalista, noto per stipare le popolazioni in case alveare tutte uguali e azzerarne le identità.
La costruzione e il modellamento dell’ambiente incontaminato non sono un male, se questi rispecchiano l’essenza di un popolo e siano integrate nella natura: è un male la cementificazione assoluta, l’erosione dei suoli per i parcheggi dei centri commerciali, l’inquinamento di falde acquifere.
Dobbiamo riprendere coscienza di far parte di un cosmos, di essere parte di un ciclo storico e temporale e, perché no, anche ambientale. Dobbiamo tornare a seguire ritmi meno frenetici, a contemplare il paesaggio e a cercare di capire ciò che i nostri grandi avi ci hanno voluto lasciare.
E, da lì, ripartire.
Commenti recenti