Di Sergio
È la domanda a cui tenta di rispondere il libro di Jack Donovan intitolato, appunto, La via degli uomini, uscito proprio in queste settimane per le edizioni di Passaggio al Bosco. Lo abbiamo letto: una lettura veloce, scorrevole, soprattutto nei suoi capitoli iniziali, che impegna non più di una giornata per essere finito. In fondo, in quarantena abbiamo tempo da vendere e leggere può essere, anzi, è il miglior modo per tenere acceso il cervello, tra una diretta di Conte e l’altra.
Premessa: consigliamo a tutti di leggerlo se almeno una volta nella vita hanno visto Fight Club (1996), ispirato al noto romanzo di Chuck Palahniuk. Non aspettatevi una grande filosofia che ne regge la trama e nemmeno un rimando ascetico alle virtù della metafisica della guerra. Donovan, come Tyler Durden, affronta ciò che della metafisica è premessa e terreno: l’uomo, o la sua natura se volete, in quanto tale. Bisogna fare un esercizio di distacco, è vero, per poter capire quello che lo scrittore statunitense cerca di trasmettere con poche e agili parole, che spesso possono sembrar cadere in atroci semplificazioni. Distacco da tutto ciò che abbiamo imparato a leggere, e conoscere, dal nostro mondo che ci ha già trasmesso i valori, e soprattutto gli esempi, su cui reggere un tipo di uomo “differenziato”: da Ernst Jünger a Julius Evola, da Yukio Mishima (citato nei capitoli finali) a Dominique Venner, più o meno tutti sappiamo quali sono le virtù che fanno di un uomo, un Uomo. Onore, Fedeltà, Coraggio, Rispetto, Dignità, ecc. Ma scopriremo che Donovan ci arriva per altra via, in un percorso che dal basso va verso l’alto.
Bene, distacchiamoci e liberiamoci per un attimo del nostro bagaglio e cerchiamo di leggere questo uomini for dummies con lo spirito appunto di dummies (principianti/negati). Scrolliamoci di dosso l’etica, per adesso, e scendiamo nel campo dell’estetica pura e semplice, l’azione, il gesto sconsiderato, la rissa…
Perché un maschio è maschio? Può sembrare una domanda facile e difficile allo stesso tempo, ma in realtà sappiamo benissimo, in fondo, che il maschio è colui che deve difendere e attaccare. Insomma, il maschio è quello che viene alle mani. Liberato dagli orpelli della civiltà, l’uomo è il nume della violenza, distruttrice e generatrice allo stesso tempo. Donovan usa l’espediente molto hollywoodiano della situazione survival in cui il gruppo umano che si forma in una situazione post catastrofica recede alle gerarchie arcaiche. Per arcaiche non si intende retrogradi, ma originali, ovvero vagliate dalla necessità più pura e semplice che un uomo possa riconoscere: sopravvivere.
Se ad una prima lettura il libro può sembrare una negazione dello spirito religioso insito nella natura umana, in favore di una semplice visione bestiale, basta riflettere sull’importanza dell’azione e dell’atto, nella costruzione di una visione condivisa, anche religiosa e spirituale della vita. Accendi un fuoco, traccia un perimetro, difendi il Noi dal Loro. È da qui che discende per prima la sacralità del gruppo, della tribù, della città, della nazione, della civiltà. La discriminazione per eccellenza: amico e nemico, fidato e non fidato. Dare la giusta importanza. Ecco il significato di gerarchia, anche nella visione Platonica di Stato, affidata alle pagine della Repubblica: “voi quanti siete cittadini dello Stato, siete tutti fratelli, ma la divinità, mentre vi plasmava, a quelli di voi che hanno attitudine al governo mescolò, nella loro generazione, dell’oro; ai guerrieri argento; ferro e bronzo agli agricoltori e agli altri artigiani…”
Famoso è l’oracolo secondo il quale lo Stato è destinato a perire, quando la sua “custodia” sia affidata alle ultime due categorie. Calza a pennello con questo libro, che affronta man mano la retrocessione e lo svilimento dell’attributo d’argento rispetto agli altri e soprattutto rispetto al Femminismo eretto ad assoluto politico e culturale. Il punto in questo caso non è che mancano i guerrieri, i mercanti e i produttori. Il punto è che manca proprio l’uomo con le sue qualità basic: onore, coraggio e forza.
Torniamo un momento a Fight Club: una delle scene più esilaranti della pellicola di David Fincher è quella in cui il Sig. Durden sfida i suoi adepti a fare a botte con qualcuno. Può sembrare facile, ma i giovani maneschi del Club si trovano di fronte ad una cruda realtà: nessuno, nonostante le vessanti molestie da loro messe in atto, è disposto a replicare anche solo verbalmente. Pochi ci riescono, molti tornano con le mani in mano. Battersi è ritenuto al giorno d’oggi una cosa barbara, volgare, nella migliore ipotesi inutile, nella peggiore un reato da prigione. Ma il punto non è il battersi, nel caso del film per motivi futili (ma comunque non diversi da quelli che potrebbero spingere qualcuno ad aggredirti in strada e da cui non puoi difenderti spiegando perché sono futili i suoi motivi), ma il perché battersi. Lobotomizzata la giusta causa, rimangono solo gli effetti: la violenza di sfogo che, una volta incanalata in palliativi come videogiochi, intrattenimento e pornografia, si fa sterile, castrante, semplice masturbazione.
L’Onore è parola ormai desueta, io stesso ho visto professoresse di scuola inorridire al solo pronunciarla, quasi come fosse omicidio. La verità è che sono parole che mettono paura. Come scrisse Gabriele Adinolfi a proposito di questa virtù, nel suo libro Tortuga, l’onore è una di quei valori arcaici che maggiormente vengono sviliti ed attaccati da chi ne è privo. Privati gli uomini di onore, coraggio e forza tramite colpevolizzazione e rimorso di tempi mai vissuti, si è eretto a modello l’aforisma di Brecht secondo cui è “sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. Cosa se ne fanno degli eroi, i ragazzi che devono imparare ad avere un onesto impiego da brav’uomo? Quei ragazzi che devono imparare a non radicarsi, che devono abituarsi al precariato, che devono sperare un giorno di avere abbastanza soldi per potersi permettere uno svago. In fine, cosa se ne fanno della mascolinità i ragazzi che devono imparare ad essere fluid o, nella migliore delle ipotesi, cavie di esperimenti sociali o oggetti sottomessi al capriccio femminista?
Ma, allora, cosa rimane all’uomo in questo deserto apocalittico? Semplice: la nostra via. La via nata dalla condivisione di una stessa visione del Mondo, che si è fatta carne e vive ancora oggi di un perimetro tracciato millenni fa. Donovan non lo dice, ma noi capiamo dalle sue parole che l’alternativa comunitaria, che lui prefigura in controtendenza alla singolarità debole dominante, è già in atto da moltissimo tempo. Dai tempi di Omero ed Eschilo, dai tempi di Enea e della fondazione di Roma, che lui stesso porta ad esempio di volontà di potenza “maschile” anche se (va detto) ignora (volutamente) quegli esempi femminili che fecero altrettanto grande Roma e che potrebbero essere invece antidoto a quel femminismo tossico che inquina il dibattito politico. In assenza di quell’orizzonte di guerra, di cui lo stesso Venner denuncia la scomparsa nel Samurai d’Occidente, come possono gli uomini tornare a misurarsi in un mondo che ha fatto della dis-misura, quindi del non essere, la sua metafisica?
Scrisse il poeta americano Ralph Waldo Emerson: “La guerra educa i sensi, chiama in azione la volontà, perfeziona la costituzione fisica, porta gli uomini in una collisione così lesta e ravvicinata nei momenti critici, che l’uomo misura l’uomo”. Misurarsi, darsi uno spazio e un tempo. La guerra non è necessariamente una guerra aperta e combattuta come nelle Battaglie di Napoleonica memoria, non siamo né a Wagram né ad Austerlitz, siamo nel 2020 e la guerra ha smesso da tempo di essere la “guerra di Marte”.
“Oggi la guerra – scriveva James Hillman nel suo Un terribile amore per la guerra – è una devastante operazione high-tech eseguita da tecnici specializzati con un tocco delle dita. La guerra di Apollo, ‘lungisaettante’ come lo chiama Esiodo, colui che colpisce da grande distanza con le sue frecce che solcano il cielo. Le armi lontano dal fronte, il fronte stesso dissolto, mentre la guerra si trasferisce in cielo, sui satelliti, nello spazio. Laddove le guerre di Marte oppongono esercito a esercito su campi di battaglia fuori le mura e riconoscono le ‘città aperte’, da non attaccare, lo stile apollineo porta la guerra dentro la città, contro i civili, contro la civiltà”. Il nostro nemico, come Donovan ben espone nelle appendici, non colpisce con le armi della vicinanza, vuoi perché vile, vuoi perché arrogante della sua superiorità tecnologica, come vi pare… ma muove i suoi attacchi con il veicolo del pensiero unico, delle banche, dei consumi, dei media mainstream, della cultura monopolizzata da professori partigiani. Insomma, armi di un nemico invisibile, distante.
Torna alla memoria, sempre tramite Platone e La Repubblica, la leggenda del Re della Lidia, Gige, il quale si diceva fosse venuto in possesso di un anello magico: quando Gige lo ruotava vedeva tutti e tutto, divenendo invisibile, potendo così compiere ogni nefandezza con la sicurezza di scampare sempre alla giustizia. Eccolo il nostro nemico invisibile, colui che non deve rendere conto a nessuno se non al suo personale interesse, che non si vincola a nessun luogo perché sennò ne sarebbe limitato. Come si vince un nemico che si muove nel buio? Con la luce, ovviamente.
Fai saltare il suo piatto della bilancia, rigetta l’anello che potrebbe tentarti. Accendi un fuoco con i tuoi fratelli. Traccia un perimetro: ciò che è dentro è sacro, “non è in vendita”, non si baratta e non si negozia.
“Tutto questo come un rituale antico. Così sia. Evoca le forme. Quando non ti resta nient’altro imbastisci cerimoniali sul nulla e soffiaci sopra”. Oggi siamo in vena di autori statunitensi, infatti così scrive Cormac McCarthy nel romanzo post-apocalittico La strada (2006). Questo è il genere di risposta arcaica che Guillaume Faye auspicava nel suo Archeofuturismo quando, profetizzando i disastri della modernità, capì che a scenari apocalittici potevano rispondere spalle al muro solo uomini arcaici, con ben chiara la giusta gerarchia di valori. La via degli uomini di Jack Donovan in sostanza è questo, il primo gradino verso i valori verticali. La base naturale e istintiva dei bisogni più alti. Istinti, questi, complementari e viventi insieme alle nostre virtù più civili. Non c’è bisogno di una guerra campale per misurarsi, ma è necessario stare a difesa del perimetro come sentinelle. Siamo gli ultimi europei e “Tutto questo ricade su di noi, le sentinelle, perché sappiamo che se noi falliamo nel nostro compito, non ci sarà felicità per l’uomo, né vita familiare, né storie da raccontare, né arte o musica” scrive Donovan nei primi capitoli.
L’ordine è restare vivi, ad ogni costo. È un ordine semplice come quello che riceve il tenente Hiroo Onoda, prima di passare trent’anni nelle giungle di Lubang.
Tenere alto l’onore e restare vivi in un mondo di morti.
In fondo “Dobbiamo prima essere vivi per poter filosofeggiare”.
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