Di Sergio
Cesare: romano, generale, dittatore.
Ci basta questo per descrivere la figura di Gaio Giulio Cesare? Come può un uomo disfare il tessuto del tempo e riproporsi nei secoli come figura archetipica delle Nazioni e degli Imperi?
Non basta analizzare la sua vita da un piano prettamente storico per capire in profondità ciò che Cesare ha costruito durante l’arco della sua vita terrena. Non basta nemmeno l’occhio critico e razionale per capire i fatti di Roma, che dalla critica e razionalità furono sempre esenti per sfociare nel campo del mito, che è precedente alla storia.
Collochiamo Cesare nel suo tempo: Gaius Iulius Caesar nacque a Roma, il 12 (o 13) luglio del 100 a.C. Discende dalla Gens Iulia, nobile stirpe romana che Virgilio vuole discesa direttamente da Iulo, altresì conosciuto come Ascanio, figlio del capostipite della stirpe romana Enea. La stessa Gens di Romolo, il fondatore dell’Urbe. Una schiatta divina che la Tradizione fa discendere direttamente dalla Dèa Venere, poiché dal suo amore per il mortale Anchise nacque proprio l’eroe Troiano protagonista dell’Eneide.
Ma attenzione, a Roma il patriziato non era sinonimo di ricchezza. Infatti, economicamente la Gens subì alterne vicende: sta di fatto che la famiglia di Cesare aveva residenza nella Suburra, il quartiere più popolare (e popoloso) di Roma antica. Un moderno figlio dei quartieri popolari, che però non dimenticherà mai la grandezza del suo destino di sangue.
Dal sangue infatti erediterà il fato della sua vita, la Guerra. Perché se Enea è figlio di Venere, Romolo (come suo fratello Remo) è figlio di Marte. E come degno discendente del Dio della Guerra, Cesare fu durante tutta la sua esistenza rappresentate vivente di questo Nume. Fin dalla giovinezza la sua fu un’irruzione rocambolesca nella vita politica e militare di Roma: perseguitato durante la dittatura di Silla in quanto nipote di Gaio Mario, dovette divorziare a forza e ritirarsi nella Sabina, con l’obbligo di cambiare residenza ogni giorno per sfuggire alle proscrizioni Sillane. Quando raggiunge l’età, parte per il servizio militare in Asia Minore dove affronta i primi combattimenti e dove conquista il rispetto con la “Corona Civica”, l’onorificenza concessa a chi in combattimento avesse salvato la vita ad un cittadino. Pirati, Mitridate, altre guerre nell’Asia Minore e poi il ritorno a Roma dove nel 74 a.C. viene eletto, primo per voti, come Tribuno Militare.
Si impegnò dunque nelle battaglie politiche sostenute dai populares, ovvero l’approvazione della Lex Plotia (l’amnistia per coloro che erano stati esiliati dopo aver partecipato all’insurrezione di Lepido)e il ripristino dei poteri dei tribuni della plebe, il cui diritto di veto era stato notevolmente ridimensionato da Silla. Nel 69 è in Spagna Ulteriore, dove svolge attività giudiziarie per ridurre la pressione fiscale, attività che gli fanno guadagnare la simpatia della popolazione locale. È a Cadice (Gades all’epoca) che osservando riverente la statua di Alessandro Magno scoppia in lacrime commentando con un celebre passo: “Non vi sembra che ci sia motivo di addolorarsi se alla mia età Alessandro regnava già su tante persone, mentre io non ho fatto ancora nulla di notevole?”.
Politica e religione a Roma non erano mondi distinti, ma parte della stessa arteria che irrorava il corpo dell’Urbe: Cesare si batte per far tornare la carica di Pontefice Massimo elettiva, che ottiene con una nettissima vittoria nel 63 a.C. a discapito del partito degli Optimates. Da quel momento lascia per sempre la Suburra per trasferirsi sulla Via Sacra.
La Guerra chiama, la rivolta del sangue contro l’oro stringe a raccolta sotto la guida di Lucio Sergio Catilina anche Cesare. Ma la rivoluzione abortisce e Cesare, seppur addentro profondamente ai piani dei ribelli per il rovesciamento dell’oligarchia (plutocrazia) senatoria, non condividerà con Catilina e i suoi ventimila fedelissimi il terribile e grandioso epilogo di sangue della Battaglia di Pistoia. Vince quella Repubblica oligarchica, corrotta e profondamente impopolare degnamente rappresentata da Cicerone, uomo vile ed infedele, contro cui Cesare volgerà, anni dopo, la sua più grande guerra, la sua “giusta causa”.
Da qui citiamo l’articolo del Primato Nazionale di Marzio Boni (13 luglio 2016):
“Potremmo dunque immaginare Cesare come un vero e proprio fuoco in movimento, capace di incendiare gli animi dei suoi soldati come nessun altro e spingerli ad azioni leggendarie. Scrive Svetonio: ‘mitissimo per natura, anche nel vendicarsi contro i pirati dai quali era stato catturato, una volta ridottili in suo potere, poiché in precedenza aveva giurato che li avrebbe crocifissi, prima li fece sgozzare, e solo dopo crocifiggere’. Cesare ristabilì il Principio Imperiale su Roma, andando a sostituire la Repubblica che viene descritta, in “vite parallele” di Plutarco, in preda al disordine ed alla corruzione. Possiamo tranquillamente asserire che Cesare si impose come principio ordinatore sul caos e che, attraversando il Rubicone, dichiarò guerra al disordine che regnava a Roma e non alla città stessa, come affermano gli storici. Riportò l’ordine ed il Diritto nell’Urbe”.
Ecco appunto la “via di Marte”: la giusta guerra per la riaffermazione della Giustizia sul caos. Sono mille i parallelismi che si possono fare con il mondo moderno, dove a regnare sono proprio quei plutocrati, oligarchi e vili che Cesare e Catilina odiavano con tutte le loro forze. Eppure la Vittoria di Cesare continua a parlarci attraverso i millenni: il suo nome si è fatto titolo regale della nobiltà europea del medioevo e persino di quella mussulmana.
Nella forma originale il titolo fu in uso nell’Impero romano, nell’Impero bizantino e nell’Impero ottomano (qaysar-ı Rum, “Cesare dei Romei“, era uno dei titoli del Sultano).
La variante Zar fu invece utilizzata nell’Impero bulgaro (913–1018, 1185–1422 e nella Bulgaria del 1908–1946), nell’Impero russo e in Serbia (1346–1371), mentre in quelli austriaco e tedesco il titolo prese la forma di Kaiser (dal greco Καίσαρ, Kaisar). Un nome che si è fatto mito vivente e sinonimo stesso di Imperatore, di guerra e annunciatore di Vittoria.
Era un dittatore, era un populista, era un guerrafondaio direbbero gli epigoni della vulgata anti-italiana, quei noiosi e vecchi professori che con il ditino bacchettone ci vengono a raccontare che tutta la tradizione romana (e quindi italiana) è solo una bella favoletta infiocchettata per le masse. Ma quello che questi stupidi arroganti non hanno mai capito è il sentimento che muove le masse e soprattutto quello che muove i singoli.
Popolo, non massa, è quello che adora e divinizza Cesare dopo le Idi di Marzo, quando dopo l’assassinio divenuto infamia per antonomasia, glorifica il suo corpo come descrive Appiano: “…deposero la spoglia nel Foro. Là dove è l’antica reggia dei Romani, e vi accumularono sopra tavole, sedili e quanto altro legname era lì… accesero il fuoco e tutto il popolo assistette al rogo durante la notte. In quel luogo venne eretta dapprima un’ara, ora vi è il tempio dello stesso Cesare, nel quale egli è onorato come un Dio”. Cesare “È” il popolo romano.
Se non bastassero queste parole, basta andare a fare una passeggiata al Foro Romano per capire come un uomo e un’idea possono diventare una potenza immortale nello spirito universale di Roma: avvicinatevi all’Ara di Cesare, una modesta e quasi anonima struttura proprio al centro della Via Sacra. Entrate nella nicchia coperta e vedrete che sul cumolo di pietre imbrunite dai secoli ancora vengono deposti oggetti, monetine, offerte. Non è raro trovare mazzi di fiori, portati anche da anonimi turisti, magari francesi, che quindi dovrebbero condividere secondo una strana vulgata nazionalista, una sorta di odio atavico contro il conquistatore delle Gallie…
È irrazionale, certo. Ma un sentimento non può essere spiegato. Si può solo agire e gettare il proprio fiore come se la pira ardesse ancora davanti ai nostri occhi.
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