Quando si legge la Storia romana spesso lo si fa con il cosiddetto beneficio del dubbio attribuendo alle azioni più straordinarie una dimensione del tutto leggendaria. Ma si ricordi sempre che la leggenda penetra solo laddove i valori che vuole esaltare sono accettati dalla comunità a cui li si presenta. Tra i tanti casi reperibili nelle opere degli storici di Roma potremmo far riferimento alla storia di Muzio Scevola.
Nel 508 a.C. Roma è assediata dagli etruschi, il generale che comanda questo intervento militare è il re di Chiusi, Lucomone Porsenna e la causa sembrerebbe essere l’estromissione di Tarquinio il Superbo con il conseguente avvento della Repubblica. L’assedio etrusco sta portando non pochi problemi a Roma, primo fra tutti la mancanza di cibo, e il malcontento va dilagando. È proprio per queste condizioni di disagio che un giovane aristocratico della città, Muzio Scevola, ottiene l’autorizzazione ad elaborare un piano che porti all’uccisione del Re etrusco.
Senza perdere tempo, Muzio si dirige verso l’accampamento nemico e con poca difficoltà trova il Re intento alla consegna della paga ai propri soldati, si mette in fila senza lasciar trasparire le sue intenzioni e quando arriva il suo turno sferra una pugnalata mortale. Sfortunatamente, però, colpisce non il Re ma il suo scriba. Naturalmente viene circondato dalle guardie e viene portato davanti al Re per essere giudicato, il giovane confessa subito i suoi piani e per punirsi decide di mettere una mano nel fuoco e di lasciarla finché questa non sarebbe bruciata completamente. Alla vista di questo atto coraggioso Porsenna decide di liberare subito il romano.
Indubbiamente non possiamo decretare con assoluta sicurezza la veridicità di questo episodio, ma si può analizzare quale fosse l’atteggiamento del giovane romano nei confronti della Patria riferendoci al concetto di Pietas. La Pietas era innanzitutto una sorta di divinità rappresentante il dovere nei confronti dello Stato che tutti i cittadini di Roma accettavano di farsi carico con orgoglio e non si sottraevano dal venerarla in ogni momento. Questa tesi è avvalorata soprattutto dal fatto che nella storia romana è pieno di esempi che hanno messo da parte il loro particulare guicciardiano per la salvaguardia della comunità e nessuno si è mai sottratto alla chiamata di abnegazione. Le opere, poi, ci danno conferma che questi atti eroici non erano altro che la risposta ad un sistema di valori che vigeva a Roma; Livio, ad esempio, commenta il gesto dicendo Et facere et pati fortia Romanum est (L’operare e il soffrire da forte è degno di un romano).
Rapportando la lezione di Muzio Scevola a giorni più vicini ai nostri possiamo parlare dei ragazzi del ’99. Ragazzi che a soli diciotto anni hanno consegnato il loro corpo all’Esercito Italiano in favore di un valore altissimo, la difesa della Patria. Ragazzi che a diciotto anni rinunciano alla loro vita tranquilla, scelgono di avere una devozione assoluta, dicono di no alle uscite con gli amici, alle fidanzate, lasciano le loro famiglie per andare incontro alla morte nelle trincee, una morte che però ha dell’eroico. Accanto a loro, che sono stati eretti a simbolo di una gioventù che non si arrende, possiamo ricordare tutti, anche i meno citati, i giovani che non hanno opposto le loro crisi d’isteria egocentrica quando era la loro Nazione a chiamarli alle armi. E sono sicuramente l’ultimo esempio tangibile di Pietas, concetto ormai del tutto dimenticato.
Sarebbe interessante se questa storia venisse raccontata ancora nelle scuole e presentata nella sua accezione profonda e non soffermandosi solo all’involucro leggendario che vi sta intorno, ma probabilmente, chi la insegna è figlio di una generazione che ha voluto cancellare in ogni modo i valori di rinuncia all’ego personale in favore di qualcosa di più alto; una generazione che si è proposta come unico obiettivo la distruzione di millenni di Storia e l’annichilimento dei suoi successori, e a quanto pare, continua in questa crociata verso ciò che il mondo ci ha donato di bello: le tradizioni.
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