Di Jennifer

“Dante, Dante, e Dante: chi non l’ha familiare balbetterà inetto per tutta la vita”.

No, non sono le parole del vostro professore di letteratura delle superiori. Non provengono da una raccolta antologica e nemmeno da un commento all’opera di Contini, di quelli che facevano sanguinare le orecchie al solo pensiero. Sono parole ben più schiette di un uomo che ha fatto di sintesi e brevità un suo tratto peculiare. Il fiorentino Berto Ricci: giornalista, poeta, matematico… fascista! Un uomo d’azione che, nonostante la sua posizione, non esitò nel 1935 a partire volontario per l’Etiopia e poi, nel 1941, in Libia. Un uomo, per capirsi, che allo scoppio della guerra subissò di lettere Pavolini e lo stesso Mussolini perché gli fosse concesso il suo posto in prima linea. Insomma non proprio un professorino in cattedra, non un bacchettone accademico. Allora perché Dante? Due fiorentini, nati intorno allo stesso giorno (21 maggio, anche se per l’Alighieri non è certo), che hanno fatto della loro opera il motivo della loro vita, cosa possono insegnare agli Italiani di oggi?

Un’idea di Stato e di Uomo

Giovanni Gentile, nel dibattito con Croce su Dante,  insistite sul principio di nazionalità, celebrando il Sommo Poeta come la latinità che diventa italianità. Ravvisa, infatti, nel “De Monarchia” il primo atto di ribellione nei confronti della filosofia scolastica e contro una Chiesa che ha ostacolato per secoli “ogni regolare sviluppo della nostra costituzione politica”. Gentile, parla di Dante in diverse occasioni, di particolare rilievo, però, sono le due letture tenute alla Casa di Dante di Roma, la prima del 1918 sulla profezia di Dante, la seconda del 1939 sul canto di Sordello (VI purgatorio).

Il primo intervento riguarda il Dante politico, sostenitore dell’ autorità imperiale, e il rapporto con il veltro: un provvidenziale liberatore che avrebbe salvato gli uomini dalla “lupa-cupidigia”. Ad oggi l’ identificazione del veltro è controversa, ma l’ ipotesi più probabile è quella che il liberatore si identifichi con Arrigo VII di Lussemburgo, invocato per porre fine all’ anarchia politica dell’ Italia dei comuni. La profezia dantesca, quindi, consiste nel leggere le parole del fiorentino come un progetto di stato etico:

“Ei ammonisce, non esservi pace senza Stato forte; e finché questa forza non coincida con la giustizia e con la libertà, la pace esser vana speranza, e la guerra necessaria, da combattere senza tregua, senza esitanze, fermi nella fede che Dio la vuole; perché lo Stato […] fa uomo, libero nel diritto: di quella libertà, che sola può lasciarci sentire la presenza di Dio in noi e nelle cose nostre […]. La vita dello Stato infatti è vita di uomini, vita spirituale: e questa vita non è dato concepirla se non come devozione assoluta a un’idea […]. Quella devozione, che fa il soldato sicuro incontro alla morte necessaria alla patria, ma fa anche ogni cittadino negli uffici più prosaici e meno rischiosi […], inflessibile nella coscienza e nella volontà del dovere; ignaro, […] di un interesse privato che non sia quello medesimo dell’idea di cui egli è servitore”.

Un’idea di stato che si fonde organicamente con l’uomo in quanto essere “spirituale”, non semplice numero o lavoratore della concezione capitalistica della società borghese. Berto Ricci sapeva, come Dante e Gentile, che la guerra doveva essere rivolta soprattutto verso se stessi, contro il borghese che è in noi: “In ciascuno di noi, con le sue rinunzie e le sue ambizioni, con il suo sottilizzare e dubitare, il suo particolarismo d’individuo, di famiglia, di ceto, la sua brama di ricchezza, la sua paura della povertà; la sua paura del coraggio; il suo basto d’abitudini; la sua doccia tiepida d’accomodamenti…”. Combattere quella macchietta che ognuno si auto attribuisce e liberare l’Italia da quella che gli è stata attribuita dal mondo: l’Italietta delle mafie e delle gondole, del prete e della puttana. Falsità a cui purtroppo siamo stati abituati a credere da uno stato che da settant’anni ha abdicato all’educazione dei suoi figli, che ha deciso di crescerli con il pessimo esempio dei politicanti da poltrona.

Risorgimento

Secondo Dante, quindi, lo Stato non è qualcosa di già fatto o scontato. Sempre Gentile ricorda: “Il nostro Stato […] non è per l’appunto quello che c’è, ma quello che si costruisce, quello che noi politicamente lavoriamo sempre a costruire, senza poter dire mai di avere bella e compiuta l’opera nostra”. Un lavoro continuo, senza sosta, per compiere prima dentro di noi quella rivoluzione che si vuole compiere all’esterno. Essere Italiano è prima di tutto un dovere, non qualcosa da Ius Soli o da certificato in carta bollata, un dovere verso se stessi e verso chi ci ha preceduto.

Un risorgimento perpetuo, che poi è uno dei significati più profondi della Commedia di Dante: è necessario scendere all’Inferno per arrivare al Paradiso, ma scendere è facile, l’impresa sta sempre nel risalire. Per compiere questo viaggio, ogni giorno, è necessario essere alla ricerca di un principio supremo, un Amore, un disperato amore che ancora prima di essere mèta ultima del viaggio, si fa motore dello stesso durante la strada.

Ecco cosa ci lasciano i nostri profeti: Dante, Gentile, Ricci. A scanso dei cattivi maestri, professori annoiati e giornalisti da strapazzo, i nostri “grandi” ci lasciano qualcosa di ancora più alto di un semplice brano. Un esempio da seguire per essere Italiani con la “I” maiuscola. Un’etica dell’onore da contrapporre alla morale da schiavo. Un’etica guerriera, che secondo Dominique Venner “afferma che la vita è lotta” ed “esalta il valore del sacrificio”. Dante muore in esilio senza rimettere mai più piede a Firenze, Ricci muore sul fronte libico crivellato da uno spitfire inglese, Gentile viene assassinato da un commando partigiano dopo la sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana. Esempi di coerenza a se stessi e di fedeltà all’idea. Ciò che oggi deve essere trasmesso alle nuove generazioni, la base per il nuovo Stato che deve rinascere. Per responsabilità di ciascuno di noi.