di Saturno

Introduzione

Il concetto di corporazione storicamente fa riferimento a un tipo di istituzione medioevale che ha funzione di organizzare il mondo del lavoro, non in base a classi sociali gerarchiche (es. proletariato, borghesia, aristocrazia), bensì segmentandolo in categorie produttive distinte per attività economica (calzolai, fabbri, lavoratori del settore tessile, ecc.). L’idea di un rilancio dell’organizzazione della società in qualcosa di concettualmente simile alle corporazioni medievali si è diffusa in Europa nell’Ottocento soprattutto in ambiente cattolico.

L’idea di corporativismo comprende due ambiti diversi ma legati tra loro, uno economico che fa riferimento alla riorganizzazione dei rapporti di lavoro, l’altro politico che fa invece riferimento ad un nuovo sistema di rappresentanza politico-istituzionale.

In campo economico l’obiettivo del corporativismo è quello di regolare le relazioni nel sistema produttivo sopprimendo la conflittualità sociale tra lavoratori e datori di lavoro (lotta di classe) incanalandola verso una risoluzione pacifica, istituzionale e regolamentata delle controversie lavorative tramite organi di mediazione paritaria degli interessi delle parti (evitando quindi lo scontro diretto tra i due).

Mentre in campo politico il corporativismo fu pensato come sistema alternativo al parlamentarismo liberale, in quanto esso propugna la creazione di un sistema istituzionale basato su meccanismi di rappresentanza politica espressione diretta delle categorie socio-economiche (corporazioni) in contrasto all’atomizzazione individualistica delle società liberali, così da creare uno “Stato organico” dove tutte le sue componenti cooperano per il bene bene superiore dell’interesse nazionale anziché competere tra loro, al pari di come gli organi e le parti di un organismo biologico lavorano in simbiosi tra di loro per il bene del corpo.

Uno dei modi con cui ci si riferisce al corporativismo è anche quello di “terza via” poiché esso si presentò come alternativa non solo al liberal-capitalismo ma anche al socialismo (entrambe facce della stessa medaglia che sostengono, ognuna a suo modo, la lotta di classe, anche se a beneficio di categorie diverse). Nel Novecento fu sopratutto il fascismo ad appropriarsi del mito della terza via e la storiografia del dopoguerra ha quasi sempre ripetuto una tesi sviluppata negli anni ‘30 in ambito antifascista secondo cui il corporativismo fu un fallimento, “un bluff”. Ma sebbene è indubbia la sproporzione tra gli obiettivi dichiarati dai regimi che attuarono politiche corporative e le loro effettive realizzazioni, sminuirlo a semplice “bluff” è sbagliato in quanto nonostante tutto, il corporativismo produsse rilevanti effetti e trasformazioni delle società nelle relazioni tra interessi socio-economici e Stato, lasciando inoltre anche un’eredità nelle politiche sindacali del dopoguerra; a riconoscere ciò è la storiografia odierna che ha ormai riconosciuto come obsolete le critiche al corporativismo italiano quale sistema “vuoto” e inutile.

Inoltre, sebbene a un certo punto il regime fascista italiano legò indissolubilmente a se davanti al mondo (e alla società postbellica) il concetto di corporativismo, le idee corporative circolarono anche in altri ambienti politici da quello fascista, influenzando anche altri Stati, democratici (es. Svizzera, Stati Uniti d’America) e autoritari (specie Brasile, Stati iberici, dittature est-europee), i quali adottarono ognuno a suo modo politiche corporative.

Primo dopoguerra (1918-1925)

Apparentemente la grande guerra finì con la vittoria del costituzionalismo democratico contro i vecchi imperi autocratici, i nuovi stati in Europa orientale si diedero un assetto democratico con costituzioni ispirate a quelle occidentali (la Romania alla Francia, l’Albania agli USA, la Turchia a Italia e Svizzera, ecc.). Eppure la guerra aveva causato, tra le varie cose, anche una profonda revisione del pensiero politico europeo ed un sentimento di riflessione che sfociò anche in una ostilità alla democrazia liberale che si diffuse di pari passo a una voglia di rinnovamento tramite un sistema politico-economico alternativo.

Ad avere avversione per la democrazia liberale non era solo l’estrema sinistra (comunisti, socialisti) ma riguardava, ad esempio, anche alcune frange politiche confessionali (specie nel cattolicesimo) e i reazionari nostalgici dell’ancien regime. In Italia nello specifico, tra gli ex combattenti tornati dal fronte si diffusero ampiamente sentimenti di ostilità al parlamentarismo, è da questo contesto che nacque il fascismo.

Queste circostanze diedero vita ad un ritorno in auge delle teorie corporative ottocentesche, specie quella di matrice cattolica, la quale si diffuse ovviamente nei Paesi dove questa confessione religiosa è largamente presente (Stati iberici, Francia, Italia, Austria, Belgio). Fu così che progetti corporativi iniziarono ad essere proposti nei parlamenti europei del dopoguerra, ad esempio già l’11 novembre 1918 il prelato cattolico Ignaz Seipel propose un modello di democrazia corporativa all’Assemblea costituente austriaca dopo il crollo dell’impero asburgico.

In questo periodo alcuni progetti ispirati al corporativismo furono effettivamente attuati, quasi sempre come organi per il confronto paritetico, esperimenti effimeri e modesti, di “piccola scala” (niente che avesse anche solo la pretesa di modificare l’assetto politico-istituzionale dello Stato secondo un modello nuovo).

Un esempio famoso è il Joint Industrial Council inglese istituito nel 1919 come organo consultivo tra imprenditori e salariati, il quale si rivelò incapace di radicarsi nei vari settori lavorativi se non in quelli dell’edilizia e del settore pubblico. Casi analoghi di istituzione di organi paritetici avvennero in Belgio, Germania e Francia.

Prima dell’attuazione di politiche corporative da parte del fascismo italiano (che fu il primo modello duraturo e di successo) gli unici esperimenti politici volti al voler riorganizzare radicalmente lo Stato su basi corporative avvennero solo in Portogallo (1918) e a Fiume (1920).

Nel 1916 il Portogallo entrò in guerra a fianco dell’Intesa e nel 1917 avvenne un colpo di stato organizzato da Sidónio Pais, che voleva dare una svolta presidenzialista al Paese col supporto delle forze di destra. Egli abolì i partiti instaurando una dittatura a partito unico. Uno dei progetti politici sidonisti fu una riforma costituzionale che modificò l’assetto parlamentare con la creazione di una camera parzialmente corporativa, ovvero un senato con rappresentanza regionale e professionale che andava ad affiancare la camera dei deputati; fu il primo caso nella storia novecentesca di creazione di una camera corporativa. Nel dicembre 1918 Sidónio fu assassinato e la sua morte lasciò un grosso vuoto di potere, questo evento segnò la fine dell’esperimento corporativo sidonista.

Per quanto riguarda Fiume, città jugoslava che nel 1919 fu militarmente occupata da irredentisti italiani guidati da Gabriele D’Annunzio, nel settembre 1920 vi venne promulgata dal poeta abruzzese la Carta del Carnaro come statuto della Reggenza di Fiume. Essa, stilata dal socialista Alceste de Ambris e rielaborata dallo stesso D’Annunzio, oltre che definire l’assetto del piccolo Stato fiumano, doveva fare da manifesto ideologico universale mostrando al mondo un’alternativa sia all’ordinamento liberale che a quello comunista. Essa delineava un ordinamento statale dove i cittadini, per poter esercitare potere politico, devono essere iscritti a una delle corporazioni riconosciute dallo Stato, le quali a loro volta venivano rappresentate in una camera (“Consiglio dei Provvisori”) e dovevano governare autonomamente la propria categoria economica. Ma parallelamente era comunque prevista una camera (“Consiglio degli Ottimi”) eletta a suffragio universale in modalità proporzionale. L’impresa di Fiume tuttavia terminò pochi mesi dopo la proclamazione della Carta, nel “natale di sangue” dove le forze del Regno d’Italia combatterono e sconfissero le forze fiumane, pertanto non c’è stata nessuna concreta applicazione della Carta a Fiume, tuttavia la sua influenza a posteriori nel pensiero corporativo in Europa è stata notevole.

Tra i progetti corporativi concettualizzati nell’immediato dopoguerra vi fu anche quello fascista, tant’è che già dal 1919 i sansepolcristi avevano nel proprio programma istanze corporative, così come vi furono istanze corporative anche dopo la svolta partitica nel 1921 all’interno del programma del PNF. Il fascismo con le sue istanze corporative si fece portavoce di quello che era un clima politico e intellettuale sempre più diffuso in Italia e in Europa di crescente voglia di rinnovamento tramite l’istituzionalizzazione dei rapporti tra politica, economia e società. Secondo lo storico Renzo De Felice fu il nazional-sindacalismo della UIL il movimento che ha maggiormente influenzato il fascismo delle origini a tal riguardo.

Corporativismo in funzione (1926-1933)

Il biennio 1926-1927 fu un periodo fondamentale nella costruzione dell’ordinamento corporativo del regime fascista in Italia. Il 3 aprile 1926 fu approvata la legge sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro elaborata dal ministro della giustizia Alfredo Rocco, mentre il 27 aprile 1927 fu emanata la Carta del Lavoro con la quale vennero fissati i principi ispiratori della politica corporativa fascista.

I cardini del nuovo ordinamento furono tre:

  1. la risoluzione autoritaria dei conflitti di lavoro con l’abolizione del diritto di sciopero e l’istituzione della Magistratura del lavoro;
  2. il monopolio fascista della rappresentanza degli interessi col riconoscimento giuridico di una sola associazione di datori di lavoro e di un solo sindacato dei lavoratori per ogni categoria;
  3. la creazione dei primi organi corporativi quali il Ministero delle Corporazioni e il Consiglio Nazionale delle Corporazioni.

Per forza di cose, l’attuazione concreta di un qualunque progetto corporativo non poteva che deludere diverse tra le eterogenee correnti che sostenevano ognuna la propria visione di corporativismo, in quanto la realizzazione di una implicava ovviamente la non realizzazione delle altre. I sostenitori di un “sindacalismo integrale” come Rossoni rimasero delusi dalla creazione di organi di rappresentanza distinti tra datori di lavoro e lavoratori, poiché lui ambiva alla creazione di un’unica organizzazione in cui confluissero entrambi. I cattolici avrebbero preferito un ordinamento che garantisse il pluralismo e quindi l’esistenza di sindacati di differente colore politico, tuttavia il sostegno dei cattolici al progetto corporativo fascista rimase largo. Nelle discussioni parlamentari emerse anche un disaccordo in merito al divieto di associazione sindacale per i dipendenti pubblici previsto dal progetto di Rocco.

Questi furono i primi passi della costruzione dello Stato corporativo italiano, costruzione che però era ancora lontana dal compiersi a pieno: il Consiglio Nazionale delle Corporazioni venne creato nel 1930,  il Ministero delle Corporazioni fu creato ma senza le corporazioni vere e proprie che furono istituite solo nel ‘34.

La ricezione all’estero fu estremamente positiva sia per come venne presentato il progetto corporativo fascista dalla propaganda, sia perché di lì a breve la grande depressione avrebbe portato ancora maggiore sfiducia nelle masse verso il sistema politico-economico liberal-capitalista. Questa popolarità internazionale dell’ordinamento corporativo italiano influenzò anche altri Paesi che lo presero a esempio, primo fra tutti la Spagna tra il 1926 e il 1928 durante il periodo della dittatura di Primo de Rivera (instaurata nel 1923).

Uno degli obiettivi del regime spagnolo fu quello, al pari di quello italiano, di far arbitrare allo Stato i conflitti lavorativi. Durante la Grande Guerra la neutralità spagnola permise al paese di arricchirsi con un aumento delle esportazioni e della produzione industriale, la popolazione impiegata nel settore agricolo diminuì in favore delle fabbriche e ciò accrebbe il movimento sindacale col conseguente aumento di scioperi e turbolenza sociale, problemi che si sommarono a quelli delle rivendicazioni separatiste e della crisi in Marocco.

Il regime primoriverista si ispirò alle posizioni corporative italiane, talvolta anticipandolo su alcuni punti (come l’istituzione delle corporazioni nel ‘26, mentre in Italia arrivarono nel ‘34), ed unendole a posizioni “autoctone” ed innovative, come il far confluire in egual numero rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori nella stessa organizzazione sindacale (in Italia le due categorie aderivano ognuna ad organizzazioni distinte), il permettere il pluralismo sindacale (anziché appoggiarsi esclusivamente su un sindacato e chiudere tutti gli altri), ed il fondare nel ‘27 una camera di rappresentanza politica parzialmente corporativa.

La caduta della dittatura nel 1930 segnò momentaneamente la fine del progetto corporativa spagnolo, il quale per il periodo in cui fu attuato venne ben visto in Italia, sebbene gli italiani ritenessero comunque il proprio modello come superiore. Progetti corporativi in Spagna saranno poi nuovamente attuati col regime di Franco.

Diffusione del corporativismo (1934-1943)

Nel 1934 furono finalmente istituite in Italia le corporazioni, nei loro organici vi erano rappresentanti di lavoratori e datori di lavoro, ma anche membri nominati dai ministeri e dal PNF, in tal modo governo e partito potevano influenzare in modo maggiore il lavoro delle corporazioni. I ruoli delle corporazioni erano in parte relativi al lavoro e in parte all’economia, i loro compiti erano: elaborare pareri sulle questioni inerenti i rispettivi rami economici, conciliare le controversie collettive di lavoro, stabilire norme per il regolamento collettivo dei rapporti economici.

L’operato delle corporazioni è stato spesso sottovalutato dalla storiografia che, basandosi su critiche antifasciste  elaborate negli anni ‘30, le ha in genere definite inutili. Tuttavia recentemente la storiografia  ha rivalutato la loro importanza, in campo sindacale esse riuscirono a favorire l’istituzionalizzazione dei rapporti tra attori economici e potere politico, mentre in campo economico riuscirono a favorire la stipulazione di accordi tra produttori, commercianti e consumatori. Le corporazioni divennero inoltre uno degli effettivi centri decisionali in campo economico che deliberavano su temi quali: approvvigionamento delle materie prime, gestione della manodopera, standard produttivi, distribuzione commerciale, concessione di sovvenzioni, controllo di prezzi, tariffe doganali, agevolazioni fiscali, ecc. Tuttavia le decisioni più importanti in ambito economico passavano per l’IRI, quindi le corporazioni non divennero il massimo vertice direzionale dello Stato in campo economico (come la retorica dello Stato corporativo aveva sponsorizzato), tuttavia ebbero comunque un ruolo importante e non furono organizzazioni “vuote” e prive di poteri come la retorica antifascista (oggi smentita dalla storiografia) aveva sempre ripetuto fino a pochi decenni fa.

Questo ulteriore sviluppo del corporativismo in Italia, a livello internazionale fu un enorme successo propagandistico e ideologico, l’Italia divenne frequente meta per studiosi di scienze politiche ed economisti, e le idee corporative influenzarono anche i governi di altri Paesi che spesso finivano per adottare anche loro politiche d’ispirazione corporativa. Tra gli esempi più noti ci sono:  Brasile, Stati Uniti d’America (il New Deal ne fu influenzato), vari Paesi esteuropei e Paesi iberici, ovvero la Spagna di Francisco Franco e il Portogallo di Antonio Salazar. Le politiche di quest’ultimo scimmiottarono il fascismo italiano e nel 1933 fu emanato anche in Portogallo un ordinamento corporativo come parte dell’Estado Novo. Fu invece totalmente assente l’influenza del corporativismo sia nell’ideologia che nelle politiche della Germania nazionalsocialista.

Ma gli anni ‘30 furono anche il periodo dove le critiche di matrice antifascista al corporativismo si intensificarono e si diffusero, specie in Francia per via degli esuli politici italiani lì rifugiatisi. Le principali critiche mossegli furono l’accusa di essere un sistema inutile, una truffa. Dall’area cattolica invece le critiche rimasero concentrate su singoli aspetti del modello italiano in particolare, e non al concetto generale di corporativismo.

Epilogo

A livello internazionale il declino dei sistemi corporativi avvenne a causa dello scoppio secondo conflitto mondiale, per via del fatto che la circolazione del dibattito politico e accademico sul corporativismo venne meno a causa della guerra e del radicalizzarsi della polarizzazione tra fascismo e antifascismo avvenuta col sistema di alleanze internazionali. Tra i Paesi belligeranti fu attuato, a causa delle esigenze belliche, un accentramento dei poteri da parte dei governi a danno degli organi di mediazione degli interessi economici, nella stessa Italia il ruolo delle strutture corporative fu molto ridimensionato e la Camera di Fasci e delle Corporazioni venne esautorata nel ‘41.

Leggi e strutture corporative presenti nei Paesi dell’Asse non sopravvissero alla caduta dei regimi e all’arrivo degli Alleati. In Italia, con lo scoppio della guerra civile e la creazione della RSI, l’ordinamento del nuovo Stato fascista repubblicano fu privo di istanze corporative. Gli ordinamenti degli Stati esteuropei furono rifondati sul modello sovietico, mentre in Occidente la risoluzione del problema dei rapporti tra Stato e individui fu sviluppato sulle basi ideologiche di intellettuali come Keynes e Kelsen, ridando legittimità ai parlamenti facendo sì che fossero i partiti ad essere portavoce di istanze di categorie economiche e sociali, e facendo intervenire lo Stato in economia per sopperire ai difetti del libero mercato (rigettando il liberismo economico).

Le uniche eccezioni degne di nota in questo declino furono i regimi corporativi di Spagna e Portogallo, che continuarono ad esistere fino agli anni ‘70 poiché non furono Paesi direttamente coinvolti nel conflitto. Nel dopoguerra a livello propagandistico entrambi i regimi sostituirono la retorica fascista per legittimare il corporativismo con quella cattolica.

Essendo l’idea di corporativismo ormai troppo compromessa col fascismo, essa perse di popolarità e sopravvisse solo in aree e correnti politiche minoritarie, come (per citare il contesto italiano) il neofascismo (all’epoca nel Movimento Sociale Italiano, oggi in CasaPound) o alcuni membri della Democrazia Cristiana, come Costantino Mortati che all’assemblea costituente propose di trasformare il senato in una camera corporativa.

Nonostante il rapido e forzato declino dell’idea corporativa avvenuto con la guerra, essa ha comunque lasciato alcune sue tracce nell’organizzazione delle relazioni tra individui, gruppi di interesse e Stato negli ordinamenti statali postbellici. Parte dell’eredità lasciata dal corporativismo nelle politiche sindacali europee del dopoguerra è: il riconoscimento pubblico dei sindacati, la legislazione che regola il loro funzionamento, la struttura organizzativa unica per settore produttivo, i sistemi di contrattazione nazionale e l’uso di organi paritetici per risolvere le controversie lavorative. Inoltre, ad oggi vi sono ancora casi di camere di rappresentanza organizzate su base corporativa (anche se questo termine non viene più usato) in funzione, ovvero il Consiglio Nazionale sloveno e il senato irlandese. Vi sono oggi anche organi consultivi (in materie di economia e lavoro) con rappresentanti di lavoratori e datori di lavoro (insieme ad altre categorie) come il Consiglio Sociale ed Economico dei Paesi Bassi o il Comitato economico e sociale europeo (UE).